Rileggo spesso, con trasporto emotivo e ammirazione per l’uomo e le idee, il discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza di Pace di Parigi del 10 agosto 1946 di cui riporto una breve parte del famoso incipit: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
……. ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire”.

Rileggo e rifletto sul coraggio dell’uomo, sull’umiltà del rappresentante della Nazione sconfitta nel conflitto bellico appena concluso, sulla lungimiranza del politico che fa leva sul dovere di puntare al dialogo, alla cooperazione e alla pace per ristabilire le condizioni della crescita economica e sociale, in una parola della “ricostruzione”, termine che riassume la situazione internazionale in una prospettiva di “coesione e visione”.
E rileggendo intuisco la proposizione di alcuni temi prodromici all’idea di unire le forze nazionali del vecchio continente nella prospettiva – che la Storia ha plasmato dandole forma e sostanza – di una Comunità Europea legata da tradizioni culturali, valori, riferimenti ideali, prospettive evolutive sul piano sociale, attraverso l’avvio di trattati sul piano economico e commerciale, per favorire lo scambio delle esperienze, delle persone, dei prodotti, in una prospettiva di solidarismo istituzionale.

La contestualizzazione della situazione post-bellica e l’emergenza di figure di spicco politico, di intuizione non visionaria, di rettitudine, di vocazione popolare – intesa come sintesi tra autorità e rappresentatività, l’orientamento e la tensione verso un “bene comune” super partes, l’intuizione di una realtà istituzionale terza che rappresentasse le singole vicende e realtà nazionali, unitamente all’emergere di figure di spicco come De Gasperi stesso, di Schumann, Spinelli, Monnet, Adenauer, consentì un periodo di elaborazione storico-politica dell’idea transnazionale di Europa in cui ravviso due precipue peculiarità.

La prima è legata alle dimensioni territoriali e alle alleanze statuali che si andavano delineando: un’Europa “a sei “ poteva essere propedeutica ad ulteriori aggregazioni ma intanto- con senso pratico, concezione della realtà storicamente contestualizzata, senso della misura, consapevolezza della “governabilità” dell’unione comunitaria, messa al bando dei velleitarismi espansivi – era una entità tangibile e foriera di consolidamenti sul piano strutturale, normativo, economico, di identità e riconoscimento sociale.

La seconda riveste una valutazione di tipo metodologico: per capirla appieno, storicamente contestualizzata e poi rapportata al presente, possiamo compararla a certe recenti scelte espansive dell’Unione Europea, agli allargamenti inclusivi di altri Stati che ne’ per tradizione, ne’ per affidabilità e stabilità istituzionale ed economica avrebbero meritato un’espansione senza confini, un’inclusione ibridata e indeterminata dove le differenze di origine hanno alla fine prevalso sullo spirito comunitario, mentre non è mai decollata l’idea fondativa di una matrice culturale comune, di identità, sovrapposizioni valoriali, tradizioni compenetrabili.

Se dovessi immaginare una linea di continuità, un percorso, un filo conduttore che – partendo dalla CECA e dal MEC e giungendo all’Unione Europea odierna, oltre l’enfasi inclusiva che l’ha caratterizzata in modo spesso frettoloso ed acritico, privilegiando gli aspetti quantitativi su quelli identitari e qualitativi, rafforzerei la convinzione che sia stata l’economia il paradigma, il motore e la forza (ora trainante ora frenante) del decollo dell’Europa così come si è andata configurando dalle origini ai giorni nostri.
Si parla oggi dell’Europa dei mercati, delle banche, degli interessi economici che prevale sull’Europa dei popoli, delle persone, di una comunità solidale e coesa.
Prevale paradossalmente persino rispetto al tema del lavoro rispetto al quale manca del tutto una prospettiva di approccio e una visione che crei connessioni, interscambi, crescita comunitaria, diffusione del benessere nell’U.E. senza gerarchie di ricchezza o povertà.
Il salto di qualità è ancora molto lontano ma le emergenze del momento ci chiedono una prova di coesione e unità di intenti, in una prospettiva solidaristica, che non lasci indietro nessuno.

I drammatici avvenimenti legati all’esodo biblico di migranti dall’Africa dei Paesi in guerra, spinti dalla fame, dalla ricerca di lavoro e agiatezza dimostrano che manca una visione comunitaria condivisa, oltre i trattati di Schengen , di Lisbona e di Dublino.
Prevalgono le logiche di arroccamento e di difesa dei confini nazionali.
Manca una politica di gestione e di governo del fenomeno migratorio, nella sua realtà attuale e in quella immaginabile per gli anni a venire, basti pensare alle proiezioni demografiche – per citare un Paese ed un’etnia – che riguardano la Nigeria che si calcola diventerà entro 10/15 anni il Paese più popoloso al mondo dopo Cina ed India, con una popolazione venti volte superiore a quella italiana.
Su questo tema l’Europa, l’Unione, i singoli Stati stanno palesando un ritardo di consapevolezza, azione, programmazione, condivisione.
Ma un nuovo tsunami ha investito l’Europa e gli esiti ci toccano da vicino in modo imperscrutabile e imprevedibile: si aggiunge infatti in questo periodo storico l’emergenza senza precedenti della pandemia del Covid 19.

Il primo Paese europeo a subire l’impatto del contagio è stato, manco a dirlo, l’Italia ma l’epidemia dilaga ormai in tutta Europa e nel mondo intero.
L’OMS ha dichiarato ufficialmente le condizioni di una emergenza pandemica, cioè totale.
Il Parlamento Europeo e gli organismi di Governo dell’U.E. dopo aver riconosciuto nell’immigrazione e nel suo controllo un problema epocale ora devono fare i conti con questa peste del terzo millennio che sta mettendo in ginocchio il nostro Paese ma inevitabilmente riguarderà ogni Stato e Nazione della Comunità Europea.
Finora ogni Stato l’ha vissuta come problema interno ma presto diventerà una condizione comunitaria da condividere e da fronteggiare attraverso politiche sanitarie coordinate.
Qui si sta manifestando la ridondanza dei proclami e degli intenti rispetto alla fattibilità di azioni concordate. Qui si appalesa il prevalere degli aspetti formali su quelli sostanziali, una sorta di impotenza istituzionale che respinge ad ogni singolo Stato la soluzione dei problemi emergenti, dove la logica comparativa non cerca omogeneità di indirizzi, scelte, azioni ma tassonomie tra chi sta meglio e chi se la passa peggio.

I singoli Stati sembrano perseguire – sotto diverse formule ed alchimie politiche – l’antica trilogia del “popolo/territorio/potestà d’imperio”, che altro non è che la simulazione/dissimulazione del rigido controllo dei confini nazionali, un vero e proprio ritorno a certe visioni autarchiche verso l’interno e “devolutive” verso gli altri Paesi dell’U.E. Ne’ si dimentichi che il passaggio epocale della “Brexit” è un preoccupante segno di “distinguo e separatezza” da parte di uno dei Paesi più rappresentativi della cultura e delle potenzialità politico-istituzionali di un’Europa unita, a cominciare dalla lingua parlata e scritta più diffusa nel pianeta.
Il contagio sta toccando pesantemente il Regno Unito: andrà affrontato in una logica di separatezza? Sarà questa la prima “messa alla prova” degli esiti tangibili della Brexit?
Occorre ragionare in una logica di “Europa dei popoli e delle Nazioni”, piuttosto che in una logica sommatoria di singoli Stati.

L’Europa di oggi è una gigantesca scacchiera dove Governi e poteri forti dell’economia e della finanza stanno muovendo le pedine della propria sopravvivenza, dei propri destini, del futuro delle proprie generazioni emergenti. E in testa a tutta questa piramide di preoccupazioni oggettive e finora affrontate con circospezione, sospetto, distinguo e poco piglio decisionista sta la lenta erosione delle sovranità nazionali senza che le stesse possano essere sostituite da un solido impianto politico/istituzionale coeso, solidale, di lunga deriva.
Questo spiega l’emergenza dei sovranismi e dei populismi come reazione emotiva difficilmente controllata attraverso azioni concertate a livello unitario, poiché molto forte è la discrasia, il gap che separa le “visioni” e le idee stesse di Europa.
Le emergenze citate dovrebbero spingere verso un rafforzamento dell’Unione sul piano delle relazioni internazionali, soprattutto un’idea forte, unitaria e vincente in materia di politica estera e una semplificazione normativa e burocratica della vita dei cittadini dell’Unione.

Troppe cose ancora ci dividono.

E’ di questi giorni l’abissale divergenza di punti di vista espressi da Christine Lagarde, Presidente della BCE e Ursula Von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, in tema di interventi a sostegno delle emergenze nazionali – segnatamente quella italiana – rispetto al dramma della diffusione pandemica del COVID19 e degli interventi atti a fronteggiarla.

Occorre uno sforzo per superare le frammentazioni e le polarizzazioni.
Serve – è vero – una politica monetaria sulla linea di indirizzo tracciata da Mario Draghi ma ad essa si deve affiancare una comune politica fiscale e con essa sistemi sanitari capaci di interagire in sinergia a fronte di situazioni drammatiche come quella in atto.
La nostra economia continentale si trova davanti ad una drammatica crisi senza precedenti: urge una politica condivisa di sostegno alle famiglie, alle imprese, ai giovani e agli anziani, statisticamente le vittime più esposte al contagio e ai suoi esiti letali.

Solidarietà: un valore che dovrebbe ispirare le politiche comunitarie, disponibilità ad accettare le differenze come valore in un’ottica di azioni coese e condivise.
Un principio sul quale è tornato proprio in questi giorni con autorevolezza il Presidente Mattarella che ha riproposto il tema del bene comune e dell’unità di intenti.
L’Europa affronta una prova cruciale e terribile che la mette alla prova per dimostrare che oltre i trattati, i protocolli e le intese esiste davvero un afflato comunitario che restituisce senso alle intuizioni dei padri fondatori.

La storia ha fatto il suo percorso e ci sono opportunità allora impensabili per avvalorare e sostanziare una comune ispirazione identitaria, che si può realizzare con il concorso di tutti.
Non possiamo dimenticare millenni di storia, la matrice democratica degli Stati nazionali post-bellici, il fondamento di una visione cristiana della vita, popolare e di giustizia sociale degli interessi collettivi.

In ciò- per quanto riguarda il contributo ideale e valoriale che afferisce alla storia del nostro Paese – ritrovo i riferimenti ideali citati da De Gasperi nel discorso del 1946, in un’ottica oggi più che mai necessaria e prevalente di cooperazione tra i popoli.