Il ritratto del leader aretino, pubblicato sull’Osservatore Romano, mette in evidenza le sue notevoli capacità realizzative. Seppe conquistare grandi consensi e suscitare asperrime polemiche. “Il suo attivismo – scrive Follini –  gli valse un’infinità di volte le diffidenze dei più pigri e l’ironia dei più cinici”.

Fanfani fu l’impazienza della Dc. E cioè l’impazienza di un partito che alla pazienza doveva la sua identità e parte delle sue fortune. Non suoni troppo paradossale. Quella attitudine fanfaniana a fare, a fare tanto (troppo, qualche volta), a fare in fretta, a disfare e a rifare di continuo è stata anch’essa una parte della virtù politica democristiana. Che come ogni umana virtù conteneva il risvolto di qualche vizio e di molte imperfezioni.

Andando a ritroso nel tempo la storia a volte consente di illuminare le cose che l’attualità rende spesso piuttosto oscure. E dunque, si può dire che nella Dc di quel tempo ci fu chi si incaricò di pensare, chi si dedicò alla strategia, chi ebbe cura del consenso, chi si limitò alla gestione, chi provvide a tenere insieme uomini e forze. E chi, come Fanfani appunto, si fece punto d’onore di tradurre la fatica di governare nella moneta sonante delle cose concrete.

Il piano casa, innanzitutto. La prima grande riforma che De Gasperi affidò alle cure fanfaniane e che finì per essere il passo iniziale, decisivo del percorso di ricostruzione che prese forma all’indomani della guerra (e nel pieno della guerra fredda). Di lì in poi Fanfani si dedicò alle opere. L’agricoltura. L’industria pubblica. L’autostrada del Sole. La Rai. Tutte cose a cui diedero mano tante altre figure politiche di quel tempo, ovviamente. Ma nelle quali la capacità realizzativa di Fanfani fu tale molte volte da fare la differenza.

Anche il partito, nella visione fanfaniana, era fatto di “cose”. Cose strettamente legate a “persone”, ovviamente. Progetti da elaborare. Congressi da celebrare. Sezioni da aprire. Campagne da vivificare. Tessere da accumulare. E poi, lì vicino, a pochi passi, terreni da bonificare, fabbriche da costruire, strade da asfaltare, impianti da realizzare, cantieri da aprire, progetti da mettere in pratica. Una infinità di realizzazioni che dovevano, tutte insieme, modernizzare il paese e migliorare il destino dei cittadini.

Partito e governo, secondo il magistero fanfaniano, erano strettamente connessi. E quando nel ‘59 si trovò ad assommarli nella sua persona, e ad essere per qualche settimana a capo dell’uno e dell’altro, egli non pensava di violare le regole della collegialità. Semmai riteneva proprio così di poter far meglio il suo lavoro, costruendo quelle sinergie operative che nel lessico dei suoi colleghi implicavano un eccesso di spirito accentratore, mentre nel suo sottintendevano solo un di più di spirito pratico.

Fanfani passò quasi spavaldo (ma non indenne) nel bel mezzo delle tempeste ideologiche di quegli anni. Fu accusato prima di essere troppo di sinistra, poi di essere troppo di destra, non essendo mai fino in fondo né l’una né l’altra cosa. Fu considerato un accentratore, con tratti quasi autoritari, ritratto come una sorta di De Gaulle italiano, quando ancora la quinta repubblica francese era oggetto di molte diffidenze dalle nostre parti. Il suo carattere e un certo suo peculiare gusto della controversia fecero il resto.

In realtà egli fu piuttosto uno straordinario modernizzatore del nostro sistema paese. E un custode tutt’altro che irenico della sua sovranità in un mondo attraversato dalle molte dispute del dopoguerra. Fu europeista senza troppa retorica e atlantista senza troppa acquiescenza. Ma convinto al fondo che la “sua” Italia non dovesse mai rinunciare a una certa vocazione, quasi nazionalistica, a far le cose a modo suo. Senza timidezze e senza velleitarismi, viene da dire. Ma con una certa intraprendenza nello sperimentare nuovi percorsi e far sentire la propria voce. Insomma, fu un guerriero che combatté di malavoglia nelle trincee della guerra fredda, pur senza mai venir meno agli obblighi geopolitici che comportava.

Di lui si può dire senza tema di sbagliare che restò fino all’ultimo dei suoi giorni un uomo ispirato da una fede profonda, più forte di ogni controversia e di ogni delusione. Il suo attivismo gli valse un’infinità di volte le diffidenze dei più pigri e l’ironia dei più cinici. Tutte cose di cui forse si sarebbe compiaciuto e contro cui però avrebbe sempre combattuto strenuamente.

E forse proprio quel suo carattere, così “ingombrante”, e quella sua frenesia, e perfino una certa impetuosità, servirono ad accendere all’epoca le luci dello sviluppo del nostro paese.

 

[Fonte: L’Osservatore Romano – 27 aprile 2022]