Fare memoria di Roberto Ruffilli

Le Brigate Rosse, il 16 aprile 1988 (proprio pochi giorni dopo la nascita del nuovo governo presieduto da De Mita, che Ruffilli aveva contribuito a creare), assassinarono Roberto Ruffilli.

Nel giorno in cui ricorre l’anniversario dell’uccisione di Roberto Ruffilli, da parte delle Brigate Rosse, pubblichiamo il ricordo che lo scorso anno, in occasione del trentennale della morte, aveva proposto Enzo Balboni. Il testo conserva integra la sua attualità.

Se ragioniamo rispetto al titolo del libro della sua affezionata allieva Maria Serena Piretti “Una vita per le riforme”, dovremmo mestamente che nulla è stato portato a termine in tema di riforme costituzionali perché ben poco, di quello che lui aveva pensato e al quale aveva intensamente lavorato per ridare vitalità all’esangue democrazia italiana, sia stato realizzato.

Poiché oggi siamo nella Casa dei Comuni, viene bene rilevare e sottolineare, l’apporto dato da R. R. alla grande legge generale sull’amministrazione locale. Roberto si era formato nell’Università Cattolica di Milano presso il collegio Augustinianum, che, anche per la lungimiranza di chi dirigeva il collegio sia dal punto di vista culturale che spirituale, era votato alla “autoformazione nella libertà”. La scuola giuspubblicistica della Cattolica fondata da Feliciano Benvenuti negli anni ’50 e che ha avuto come esponenti Pototschnig, Berti, Pastori, Allegretti e anche chi vi parla, può essere generalmente tipizzata da questi elementi, qui esposti inmodo assai veloce:

  • a) partire dall’idea della persona (non dell’individuo) inserita in plurime e articolate comunità,
  • b) prendere come principio base dell’organizzazione politica-amministrativa quello del pluralismo istituzionale e sociale,
  • c) il soffio vitale della sperimentazione e del legame verso le tradizioni locali sanamente intese, proviene dal pensiero e dall’opera di Luigi Sturzo,
  •  il pensiero che spinge all’azione.

Grazie questo fondamento culturale-etico-ideologico a cui aveva contribuito R. R., si riuscì, in quel tempo, ad immettere attraverso la legge un seme fruttificante nella società. R. R., come responsabile dell’Ufficio problemi dello Stato della DC partecipò alla preparazione dei materiali e all’impostazione di fondo che poi porteranno alla legge 142 del 1990. Le disposizioni innovative ivi espresse sono plurime, hanno grande caratura. Si veda l’importante regola della separazione tra indirizzo politico ed attuazione amministrativa che verrà poi sancita (è vero con luci ed ombre) dal decreto legislativo n. 29 del 1993, ma ha avuto il suo esordio con la legge 142 del 1990.

La prosa del nuovo articolo 2 della legge generale n. 142 (poi diventato art.3 nella sistemazione TUEL n. 267 del 2000) è stata, finalmente, del tutto nuova perché ha inteso mettere in piena luce le comunità locali dichiarando che queste siano “autonome”, mentre al soggetto giuridico “Comune” veniva assegnato il ruolo di mezzo giuridico utile per raggiungere il fine del miglior vivere insieme.

Si ricollega a ciò il concetto di equiordinazione, proveniente dall’attività intellettuale e dalla ricerca scientifica di Vittorio Bachelet, anch’egli barbaramente ammazzato dalle B.R. nel febbraio 1980, che sta a significare come lo Stato e le Regioni sono tenute a dialogare con Comuni e Provincie, le quali si distinguono solo per diversità di funzioni e competenze e non per una superiorità genetica che la Costituzione democratica ha rifiutato una volta per tutte.

Consequenziale a tale impostazione, finalmente del tutto nuova, era anche l’impostazione di un sistema regionale delle autonomie locali (così infatti, ma inutilmente, recita la rubrica dell’art.4), perché solo in questo modo – collaborando insieme con Comuni e Province – le Regioni avrebbero dato un senso migliore della loro presenza. Invece, sia le Regioni che i Comuni e anche le tanto bistrattate Province, sono diventati entità tra loro separate e spesso in polemica senza che mai un sistema regionale delle autonomie locali abbia potuto prendere vita. Fra l’altro, in tal modo, tutti i bisogni, tutti gli interessi si dirigono e si affollano verso il centro, verso quel grumo di potere unitario che è diventato il complesso “governo plus sua maggioranza parlamentare”, senza più mediazioni né istituzioni né sociali che valgano a canalizzare, drenare, dirigere e dirimere piccole e medie controversie e questioni. Chi adesso sta al centro e al governo non sa fra l’altro che ripetere che a lui ci si deve rivolgere perché è ad esso, il governo-maggioranza dei due palazzi romani riuniti, che vanno rivolte le istanze, perché sarò lui a farsi carico, e a risolvere (il va sans dire) è problemi dei cittadini, magari accertati attraverso un click del telefono cellulare.