Caro Segretario, cari amici,

dall’ultima direzione ci separa un tempo che appare più lungo di quello reale. Avevamo pensato di aggiornare la nostra riflessione alla luce dei risultati del ballottaggio nei comuni. C’era fiducia sulla buona tenuta del partito. Possiamo essere soddisfatti? Fino a un certo punto. Si è chiusa definitivamente una fase, quella che dal 1994 ad oggi si basava sulla certezza che il radicamento della sinistra italiana a livello locale fosse l’elemento caratterizzante e garantisse l’equilibrio tra le opposte coalizioni.

I dati evidenziano con chiarezza che questa garanzia di stabilità non c’è più. Direi che abbiamo di fronte un quadro poco rassicurante. Fatichiamo, non negando la ripartenza, ovunque a tenere il passo, quasi a riprova di un inciampo, che mette in discussione le radici del nostro progetto politico.

Individuo pertanto nelle scelte del segretario, a partire dalla composizione del gruppo dirigente a lui collegato, una premura di carattere difensivo. È normale che all’incertezza proveniente dall’esterno si cerchi di contrapporre un elemento di stabilità al proprio interno. Purtroppo, anche se in apparenza comprensibile, questa risposta funziona sempre poco.

Questa mattina Nicola ha tracciato un percorso che apre una prospettiva, speriamo.

A mio avviso, affidarsi a una qualche “rassicurazione domestica”, per avere conforto tra di noi, non è la prospettiva più adeguata. Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Se il Pd esce dai suoi elementi caratterizzanti, l’elettorato reagisce in vario modo, perlopiù astenendosi.

Il ritorno, al proporzionale, richiedeva – e quindi richiede a maggior ragione oggi – uno sforzo di aggiornamento in termini di linea politica. Il centrosinistra non è più un presupposto, insito a priori nella dialettica del maggioritario, ma un processo necessariamente articolato da costruire ogni giorno, dove l‘incontro tra sinistra e centro deve  maturare nella condivisione di scelte concrete, anche in ordine alle alleanze. In tale ottica svanisce il nesso di automaticità – direi così – che finora ha presieduto alla formazione del Partito Democratico e delle sue alleanze.

Trovo allora imprecisa la riflessione fin qui operata sul tema del “centro”. Imprecisa soprattutto perché riflette l’idea di un soggetto – il centro, appunto – pronto ad essere manipolato, senza una vera autonomia. Non è così. Sì colgono spinte di segno contrario, in gran parte animate dal desiderio di mettere tra parentesi la collaborazione con il Pd. Ciò che ha portato il PPI e la Margherita a fissare l’accordo con la sinistra appare sotto un’altra luce, in altri termini per molti, oggi nel paese e ciò mi preoccupa, viene visto come un gesto di pura sudditanza e di rinuncia ai propri valori fondanti. Più ancora, dunque, si connota problematicamente l’esperienza del Pd. Nonostante i nostri sforzi, una parte dell’elettorato intermedio ci vede attratti dal passato, dove pesa un certo connotato ideologico di vecchia sinistra. Questo vero, non vero o verosimile richiede un forte impegno per rimuoverlo.

Non è facile riaprire il dialogo con il mondo usualmente definito moderato. Sappiamo bene, per altro, che l’aggettivo suona male. È un mondo che mescola esigenze diverse, anche contrapposte, tutte legate da un rifiuto del radicalismo, dell’improvvisazione, dell’intolleranza. Un mondo, ad esempio, che recepisce con fastidio l’apertura o la chiusura alla Chiesa – penso all’abolizione dell’ora di religione – a seconda degli interessi contingenti, per puro calcolo di convenienza. Vorrei far notare che alla Conferenza internazionale, celebrata in questi giorni a Caltagirone, per i 100 anni dell’Appello ai Liberi e Forti era presente tutto il mondo cattolico, dell’associazionismo, come non si vedeva da decenni. Tajani e Musumeci hanno fatto del loro meglio per appropriarsi della figura di Sturzo. Noi non siamo stati considerati come soggetto politico ad eccezione di presenze individuali. Noi, possiamo considerare una delle più alte personalità dell’antifascismo, esule per vent’anni a motivo dell’ostilità di Mussolini, distante ed estranea alla nostra sensibilità democratica? Possiamo ignorare che per molti di noi, dirigenti e quadri del Pd sul territorio nazionale, il popolarismo sturziano costituisce – forse per utilità di tutti – una fonte primaria d’ispirazione?.

Tutto questo non è un richiamo che interessa il tessuto identitario di qualcuno, e basta; semmai è il cemento di un nuovo confronto politico sul futuro dell’Italia e per l’elaborazione del nostro piano per l’Italia. Il cattolicesimo democratico ha avuto a cuore – e lo ha ancora oggi – il destino dell’Italia. Uomini come Ezio Vanoni ed Enrico Mattei hanno illuminato e diretto, nei rispettivi campi di azione, la ripresa economica del dopoguerra. Oggi abbiamo bisogno di tornare a quelle straordinarie testimonianze di  rigore e creatività. Ma possiamo farlo se il partito che abbiamo voluto e che abbiamo costruito preserva nel suo seno il senso di appartenenza a un “riformismo autentico”, non prigioniero di inutili revanscismi a sfondo ideologico.

Il tempo stringe. Se non cogliamo i segni dei tempi, l’alternativa a questa maggioranza giallo-verde prenderà altre strade, al di là delle nostre dichiarazioni, sceglierà nuovi interlocutori, potrà forse fare anche a meno di noi, se non saremo veramente uniti. Aggrapparci ad effimere certezze vuol dire rinnegare noi stessi. Il Pd è nato da un atto di coraggio e lealtà, non può scivolare nella palude della opacità di fiducia, intraprendenza e coraggio. Non c’è un altro Pd, a portata di mano, ma solo il rischio di un pericoloso reset del nostro dna, perdendo il senso perciò di una preziosa esperienza di rinnovamento democratico, condotta con spirito di generosità e al servizio del Paese.

Quando mutano le condizioni politiche, un partito deve fare in modo che ogni sua energia aiuti a compiere le scelte più giuste. Non ci possono essere dispersioni o peggio ancora divisioni. Altrimenti incomberebbe su di noi il rischio di una fatale estromissione dai processi politici più imminenti. Qualcuno paventa una scissione, invece, per parte mia, temo l’implosione. Temo cioè che le novità ci sopravanzino, mentre restiamo attanagliati alle nostre angustie. Sapete come finisce “Il giovane Holden”? Quali sono le sue ultime parole? Quello straordinario autore che è J.D. Sallinger sembra dirle a noi con ironia e mestizia : “Dio, peccato che non c’eravate”. Questo è il nostro pericolo maggiore, che di fronte alle novità che incombono altri facciano quanto spetterebbe a noi fare. Sarebbe amaro scoprire domani, guardando indietro, che noi non c’eravamo.

E il rischio è veramente alto.

Le parole del segretario di questa mattina se si tramuteranno in fatti potrebbero rappresentare un concreto passo in avanti.

Vedremo, noi faremo la nostra parte.