FLORIDI, “L’ONLIFE È UNA RIVOLUZIONE. IL RISCHIO? UNA CULTURA INDIVIDUALISTA DI MASSA”. INTERVISTA ESCLUSIVA.

 

La nostra identità – spiega il prof. Floridi, uno dei massimi esperti di cultura digitale e di intelligenza artificiale – trova una capacità espressiva molto più ampia attraverso il digitale, ma ciò a condizione che il digitale sia al servizio della persona e non viceversa”

 

Francesco Provinciali

 

Prof. Floridi ogni pubblicazione è una scommessa, trovo che la sua sia molto speciale: il titolo – “In poche battute” – riassume suoi articoli e saggi scritti tra il 2011 e il 2021, il sottotitolo “Brevi riflessioni su cultura e digitale” inquadra e propone al lettore un’ampia serie di tematiche attuali, si potrebbe definire una ‘summa’ sulla contemporaneità, uno sguardo sulle evidenze del nostro tempo. Che cos’è oggi il digitale?

 

È un cambiamento nella natura delle cose, una rivoluzione ontologica, per dirla con il lessico della filosofia. Il mondo ha assunto una dimensione ulteriore rispetto a quella analogica. È la dimensione digitale. A volte, tale dimensione ha surclassato e surrogato quella fisica. Un esempio? La musica una volta era un solco inciso su un supporto – il disco – che poteva essere graffiato. La puntina che scorreva sul vinile riproduceva il suono. Questa era la musica che la mia generazione ha conosciuto. Poi sono arrivate le cassette, supporto magnetico riscrivibile, almeno in una certa misura, attraverso operazioni di smagnetizzazione e ri-magnetizzazione, a differenza dal disco. Oggi il supporto della musica digitale è totalmente riscrivibile, manipolabile all’infinito, perché liberata dalla dimensione analogica. La musica è generata a partire da un codice binario, fatto di zero e uno. Vediamo che è cambiato il modo di essere delle cose, che divengono immateriali e al contempo aprono un universo di possibilità. C’è un tema di libertà: il vinile non era trasformabile, la cassetta lo era poco, il supporto digitale lo è all’infinito. Se prendessimo le playlist delle app di ascolto di tutti gli smartphone del mondo non ne troveremmo una uguale all’altra. Ognuno può scegliere – e continuamente cambiare – l’ordine della sequenza e le canzoni stesse, l’assenza di vincoli che spalanca le frontiere della personalizzazione. È l’effetto che definisco “cut and paste” del digitale: la capacità di ricombinazione della realtà.

 

Lei insegna ad Oxford dove dirige il Digital Ethics Lab. Nel paragrafo dedicato all’intelligenza artificiale pone l’accento sulla necessità di dotarsi di un nuovo “codice ontologico”. La diffusione delle tecnologie e la prospettiva della digitalizzazione hanno introdotto questioni etiche che riguardano l’antropologia del nostro tempo.

In che misura il pensiero computazionale e l’avvento delle macchine e degli algoritmi come fattori regolativi stanno modificando la nostra vita? Ciò comporta forse la necessità di riscrivere il concetto stesso di identità?

 

 

La nostra identità trova una capacità espressiva molto più ampia attraverso il digitale, ma ciò a condizione che il digitale sia al servizio della persona e non viceversa. Pensiamo alla quantità di proiezioni personali che sono possibili a seconda che la persona si proietti su Linkedin, su un sito di incontri oppure sul metaverso. La moltiplicazione dei registri linguistici, delle comunità di riferimento, dei modi di rappresentare sé stessi si amplia enormemente.

La proiezione virtuale infatti fa saltare i vincoli di fisicità, i limiti territoriali, libera da essi l’individuo. Durante la pandemia ci sono stati concerti con milioni di partecipanti sul metaverso, quando la presenza fisica in un luogo era impedita dalle regole per il contenimento del contagio. Diverso quando il digitale viene usato da altri sull’individuo. Qui l’esito cambia, si rischia un’erosione dell’autonomia personale, la compromissione della libertà. Pensiamo ai sistemi di raccomandazione, che spesso non si limitano a segnalarci quello che potrebbe piacerci, ma finiscono per manipolare la nostra capacità di scelta, inducendo bisogni, creando preferenze.

Il risultato è la massificazione: tendiamo tutti verso gli stessi prodotti, gli stessi stili di vita, le scelte si fanno meno libere. Potremmo dire quindi che conta chi conduce il gioco: se è la persona che agisce attraverso il mezzo digitale, la realtà si amplia, si genera libertà, l’esperienza si personalizza. Se invece la persona non è che la pedina di un gioco agito da altri i margini di libertà si riducono, le scelte si spersonalizzano e la società tende alla massificazione. Vediamo come sartorializzazione e massificazione dell’esperienza siano le due facce della medaglia, i due risvolti estremi. Sembra contraddittorio, ma ci stiamo muovendo in entrambe le direzioni. Il digitale determina entrambi i movimenti e riscrive in questo modo le nostre identità.

 

Che cosa significa questo a livello sociale, di comunità?

 

Viene a comprimersi – se non a elidersi – la dimensione meso-sociale, quella che si realizza tra la massa e l’individuo, rischia di venire meno la mediazione tra l’uno e l’altro e questo è grave perché saltano i legami di comunità. I riflessi in termini civici – per non dire politici! – sono più che evidenti. Rischiamo una cultura individualista di massa.

 

La cultura – intesa come traditio e ratio, stabilità e trasformazione, radici e innovazione – sta evolvendo, Lei ben lo sottolinea, verso una cultura proxy. Come affrontare un tema così complesso “In poche battute”? E dove porta questo processo?

 

La cultura del secolo scorso, quella dei mass-media, ha lavorato tantissimo sugli aspetti classici della semiotica, quelli tanto cari a Umberto Eco. I semiologi hanno studiato molto ciò che “sta per” qualcos’altro, dalla marca della bibita in lattina sui manifesti pubblicitari, fino all’icona di pericolo sui cartelli in prossimità delle cabine elettriche. Si tratta di segni che “stanno per”, che rappresentano, che rimandano. Il proxy aggiunge un elemento, quello dell’operatività. Un sito proxy non è solo un sito che “sta per” un altro sito, ma è anche lo strumento attraverso il quale posso operare come se fossi sull’altro sito.

C’è un rapporto di surrogazione. Il proxy è un prodotto della cultura digitale che non si limita a dare rappresentazione a qualcosa, ma sostituisce quel qualcosa e opera al posto suo. Il proxy “sta per” e “lavora al posto di”.  L’icona del dischetto su un file non serve solo a rappresentare la possibilità di salvare quanto ho scritto, ma opera il salvataggio, lo realizza. Dal punto di vista culturale, il proxy ci porta a superare il livello meramente cognitivo, aggiungendo la dimensione dell’operatività. Finora la semiotica si è occupata di una lettura cognitiva-rappresentativa.

Ora ci stiamo spostando verso un mondo che è anche e soprattutto operativo. Oggi l’icona non è solo un modo per rappresentare la realtà, ma lo strumento per agire su di essa. Finora l’idea è stata che ci fosse il mondo da una parte, la sua rappresentazione dall’altra e le due cose non comunicassero se non a livello cognitivo, tramite rimandi, connessioni o associazioni. Oggi invece sul mondo si opera attraverso i proxy, che sono rappresentazioni a cui è aggiunta la dimensione di operatività. Qui sta il salto culturale. La semiotica non si è occupata di prassi, oggi invece tutto il mondo del digitale usa i proxy per operare sul mondo, sull’ambiente circostante. Oggi agendo attraverso il digitale si arriva ad operare anche sul mondo fisico.

Non è una transizione da poco. Pensiamo al denaro, qui la trasformazione è evidente. Il denaro è qualcosa che “sta per” qualcos’altro – una misura del poter d’acquisto – allora tanto vale che sia digitale. Il pezzo di carta non serve più, la banconota è superata, in quanto mera rappresentazione.

 

Mi sono sempre posto il problema del transito generazionale: chi non è nativo digitale, le persone anziane, chi si basa più sulle rassicuranti abitudini che sui codici alfanumerici non rischia forse di vedersi escluso per una parte significativa della propria vita dall’evoluzione imposta dai processi della digitalizzazione?

 

Il divario tra nativi digitali e generazioni precedenti è enorme. La distanza anagrafica determina una differenza nella forma mentis. In mezzo si è prodotto lo spartiacque della rivoluzione digitale, velocissima, pervasiva e con effetti indubbi sul modo di pensare e di vedere delle persone. Temo che non tutto il divide sia “recuperabile”, chi è rimasto indietro – parlo soprattutto delle generazioni meno giovani – farà molta fatica a integrare uno sguardo sulle cose radicalmente rinnovato, quello che si riassume nel termine onlife.

Cosa dobbiamo fare? Di certo, non possiamo arrestare i processi di sviluppo digitale per via delle reticenze delle generazioni più anziane. E parlo come uno di loro. Dobbiamo immaginare un mondo a due velocità, attraverso politiche che tengano conto dei divari e riproducano formule più analogiche per alcuni, continuando a generare opportunità digitali per gli altri.

 

In un interessante intervento, riportato nel Suo libro, Lei mette in relazione i processi di digitalizzazione della conoscenza e dei saperi con la transizione ecologica, evidenziando ad esempio quanto risparmio produca la dematerializzazione, nel pubblico e nel privato. Per questo motivo dunque digitalizzazione, green economy, risparmio energetico ed energie rinnovabili, share economy devono marciare affiancate.

Secondo l’ONU siamo alla vigilia della sesta estinzione della vita sul pianeta, la prima per mano dell’uomo. La conferenza di Glasgow Cop26  ha posto chiari ultimatum, l’ambiente si sta trasformando in modo irreversibile, dal rialzo termico allo scioglimento dei ghiacciai e dei poli, all’innalzamento dei mari, persino le stagioni sono caratterizzate da eventi climatici catastrofici.

Quale strada intraprendere per rendere verosimile la speranza in un futuro sostenibile, verde e blu scrive Lei, per il nostro pianeta?

 

Non possiamo salvare tutto, purtroppo dobbiamo essere realisti. Al punto in cui siamo abbiamo la possibilità di limitare i danni. Sappiamo che una parte della biodiversità è già andata perduta e che un’altra parte irrimediabilmente si perderà. Lo stesso vale per l’innalzamento delle temperature, che continuerà nei prossimi anni. L’obiettivo è evitare che superi soglie oltre le quali gli effetti sarebbero molto difficili da sostenere. Già sarebbe un risultato soddisfacente. Siamo partiti tardi e ora si tratta di contenere le conseguenze negative.

Dunque, al netto di aspettative salvifiche, il ruolo delle tecnologie digitali è certamente centrale. L’espressione che Lei ricorda – “il verde e il blu” – è l’espressione che coniai molti anni fa per dare una rappresentazione alla connessione profonda tra l’ambiente (il verde di tutti gli ecosistemi in cui passiamo la nostra vita, da quelli naturali a quelli urbani, da quelli sociali a quelli economici) e le tecnologie digitali (il blu elettrico delle tecnologie digitali presenti e future). La struttura di fondo di questo binomio riguarda la gestione migliore delle risorse, l’individuazione di tecnologie a basso impatto, la diffusione dell’informazione e la conseguente determinazione del consenso politico: tutto questo il digitale e le sue tecnologie già lo stanno realizzando.

Le potenzialità per invertire le tendenze che fin qui hanno danneggiato l’ecosistema ci sono. Potremmo addirittura dare luogo a strutture – le città, ad esempio – che invece di produrre emissioni carboniche, riescono ad assorbirne. L’obiettivo posto dall’Europa è net zero: saldo carbonico zero. Alcune città si sono candidate a raggiungere tale obiettivo già nel 2030. Si tratta di un traguardo molto ambizioso, quello successivo sarà il saldo carbonico negativo. Ci vuole il coraggio politico e la giusta governance e nei prossimi anni potremo invertire la rotta.

 

La rivista Time informa che “la US Securities and Exchange Commission riferisce che nei primi sei mesi del 2022 la parola metaverso è apparsa nei documenti normativi più di 1.100 volte. L’anno precedente ha registrato 260 menzioni. I due decenni precedenti? Meno di una dozzina in totale”.

Ci aiuta a capire in cosa consiste questo mondo virtuale che si sta preparando ad uno sbarco nella nostra vita, e che consentirà l’interazione umana in una sorta di universo parallelo al mondo reale?

 

Al contrario di quanto si racconta, non credo che il metaverso rappresenti un cambio di paradigma. Si tratta di un arcipelago di siti attraverso i quali avremo occasione di vivere esperienze immersive. Già ora, come accennavo, ci sono persone che usano il metaverso per seguire eventi (concerti, conferenze, etc). Si tratterà di una nuova possibilità di realizzazione della persona, se usato bene, e di un’ulteriore possibilità di massificazione se usato male, così come le altre tecnologie digitali. Non credo nella retorica dell’universo parallelo, pur molto in voga, penso invece che l’esperienza del metaverso si inserirà nel paradigma dell’onlife, come ulteriore punto di fusione tra mondo fisico e virtuale, in cui già oggi siamo immersi.

 

Nell’articolo “Come gestire i rischi dell’A.I” (l’acronimo A.I. sta per intelligenza artificiale) Lei individua alcuni strumenti di cui le aziende e le istituzioni dovrebbero attrezzarsi: “assicurazione, prevenzione, legislazione e audit: è questo il futuro prossimo della gestione dei rischi insiti nell’AI”.

Mi soffermerei sul concetto di prevenzione: attraverso quali mezzi è possibile anticipare utilizzo improprio dell’intelligenza artificiale? Stiamo parlando di altissima tecnologia…

 

Finora abbiamo avuto un rapporto falsato con i rischi dell’intelligenza artificiale, ciò era dovuto ad una scarsa conoscenza della tecnologia che finiva per ammantarla di ombre spaventose, ma ben poco realistiche. Pensiamo al timore della rivolta delle macchine. Oggi abbiamo un approccio più ponderato con la tecnologia e siamo capaci di individuare le vere dimensioni di rischio. Nell’ottica della prevenzione, che è senz’altro quella corretta, è importante anzitutto l’affermarsi di una coscienza diffusa di quali sono i rischi veri (pensiamo alla privacy, all’utilizzo non autorizzato dei dati per finalità manipolatorie, la sicurezza cyber, etc). A seguire bisogna cercare l’assetto legislativo e regolamentare che permetta di contenere i fenomeni deteriori. In sede Europea, finalmente vediamo porre i problemi giusti.

 

Professore, vorrei concludere questa interessante conversazione con una Sua valutazione del rapporto tra sistema scolastico e formativo del nostro Paese (anche a livello di specializzazione universitaria, master, dottorati di ricerca), rispetto alle competenze al termine del corso di studi e know how richiesti dal mercato del lavoro a livello internazionale.

 

 

Se da una parte abbiamo la generazione dei nativi digitali, che è naturalmente predisposta alla comprensione della tecnologia, dei rischi e delle opportunità che genera, dall’altra parte abbiamo ancora un sistema scolastico e formativo novecentesco, decisamente analogico e spesso poco consapevole. Questo fa sì che la rivoluzione digitale finisca per rimanere aliena alle strutture che educano, formano, costruiscono competenze. Questo poi si ripercuote sul lavoro, sui servizi, sul modo di funzionare delle cose.

 

Mi conceda un esempio personale: quando ho iniziato a insegnare anche a Bologna, volevo aprire un conto corrente in euro e pounds, non ho trovato in Italia una banca che mi permettesse di aprire un conto online di questo tipo. L’ho trovato in Inghilterra, a costo zero, interamente online e solo digitale, gestibile con una semplice app che funziona benissimo. Che cosa succede dunque? La rivoluzione digitale sembra riguardare pochi tecnici molto qualificati, ma finisce per giungere con grande ritardo a informare il funzionamento della società. Si produce uno scollamento che credo peserà molto anche dal punto di vista generazionale. L’aggiornamento del sistema formativo e delle competenze è fondamentale per ricucire questo strappo.

Chi è Floridi

 

Luciano Floridi insegna all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, ma si sta legando progressivamente anche all’Università di Bologna, dove tra l’altro dirige il comitato scientifico di Ifab, la Fondazione su Intelligenza Artificiale e Big Data, che governa la potenza di calcolo del Tecnopolo bolognese, i cui maxi-computer muovono ben l’80% della capacità di calcolo europea.