L’articolo di Alberto Melloni ha lasciato il segno. La politica dei cristiani si rivela per tutti una questione che esige pazienza e rigore: non è tempo di buone intenzioni, ma di sano realismo. Indubbiamente, sulla spinta di una crisi molto complicata, per la quale non valgono gli schemi del passato, la coscienza dei credenti avverte il bisogno di superare la classica contrapposizione tra destra e sinistra. Si rumina la volontà del riscatto. L’obiettivo può avere una sua consistenza e validità, a patto che non ci ceda alla illusione del “ritorno al centro” grazie alla riproposizione di formule consumate. La figura del partito d’ispirazione cristiana appartiene alla stagione dell’ideale storico concreto di matrice maritainiana e al faticoso processo di laicizzazione dell’impegno politico dei cattolici, con il “salto” poi nella esperienza in sé formidabile della Democrazia cristiana, nella seconda metà del Novecento, con esiti fecondi specialmente in Europa e in America Latina.

Insomma, Melloni ha dato una scossa. Infatti prosegue il dibattito sul “Domani”, il nuovo quotidiano voluto da De Benedetti, con l’intervento di ieri a firma Marco Follini. Il quale, come è noto, unisce alle doti politiche la malia di una scrittura elegante e sobria, con uno stile originale. Ha pubblicato più libri sulla Dc, dopo averne conosciuto le dinamiche interne – lui ancora giovane – negli anni della tragedia di Moro, fino alla decadenza e alla fatale dissoluzione del partito. Follini accennna solitamente alla mancata elaborazione del lutto per la fine dello scudo crociato. Anzi, per aver osservato da vicino le frivole esaltazioni del “d-day” della sua distruzione, semina qualche dubbio sulla qualità politica di tale moto scomposto che avrebbe dovuto significare la liberazione di nuove e fresche energie. Dirlo con eloquio soffuso, come nel format folliniano, non diminuisce comunque la gravità di una malcelata disapprovazione.

Fin qui tutto bene, se ci si pone dal lato di una possibile controstoria sulla fine della Dc e se poi, soprattutto, insieme a questa necessaria opera di rivisitazione critica s’intenda ricavare dai fatti una spiegazione degna, sostanzialmente irriducibile alla pur giustificata apologetica. E qui Follini si ritrae, quasi a certificare l’inanità di un processo interpretativo, più facile da evocare che non da promuovere e vivere. Non spiega, appunto, perché a suo giudizio il Novecento italiano abbia chiuso i battenti con la condanna dei vincitori, mettendo cioè la Dc, e con essa i suoi alleati  tradizionali, sul banco degli imputati. Non spiega la dissoluzione di una classe dirigente di tutto rispetto, sebbene la bufera di Tangentopoli permetta, in un certo senso, d’inquadrare a occhio nudo la virulenza di quanto accaduto sotto il cielo di un prolungato e dissimulato colpo di Stato.

Follini non ammonisce, almeno stavolta, coloro che si sforzano di riattivare un percorso politico. Il suo giudizio è benevolo o perlomeno comprensivo, se non altro perché il fastidio di doversi misurare con un fenomeno disastroso di entropia politica, tale perciò da favorire l’esplosione dell’antipolitica, autorizza a vincere la naturale propensione al disincanto filosofico dei saggi. Nelle sue parole c’è un di più, forse una speranza, che si coglie nel doppio rifiuto dei “partitini”, da un lato, ma anche, dall’altro, dei “partitoni”.  In questa intersezione, meritevole di arricchimento teorico, tra opposte soluzioni caduche, opera potenzialmente la dialettica sulla formazione di “nuove forme politiche che oggi è difficile da immaginare”.  La cautela resta fortissima, ma perlomeno con Follini si ragiona o si può ragionare, così pare, sulla costruzione di uno schema dai contorni meno labili e fumosi. Il “profumo d’incenso” in Chiesa va bene, ma in politica crea confusione.