Giuliano Cazzola: “Ci vuole  una nuova visione dell’Europa fondata sul raggiungimento di nuovi obiettivi che devono essere il più possibile comuni ed integrati”.

"Giuliano Cazzola, ex sindacalista, uomo politico, docente universitario, opinionista, autore di molte pubblicazioni sui temi del lavoro, del welfare e delle pensioni di cui è considerato un esperto. Il suo libro più famoso "C'eravamo tanto amati" di Sperlig & Kupfer (2001), il più recente "L' altra storia del sindacato. Dal secondo dopoguerra agli anni di Industry 4.0", Rubettino 2018. Dopo essere stato esponente di Forza Italia e del NCD, dal 2019 ha aderito alla formazione politica "+Europa". E' editorialista del quotidiano Il Riformista.

On.le Cazzola, nella Sua lunga militanza di uomo delle istituzioni Lei ha vissuto con intensità la stagione del sindacato, poi quella politica, l’insegnamento accademico e il giornalismo. Dissimulando l’aforisma di Oscar Wilde secondo cui “l’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori” quanto invece l’ha formata e arricchita questa lunga e poliedrica vicenda umana, professionale e culturale? Forse l’aver vissuto intensamente e con profonda immedesimazione quel sentimento che Giuseppe De Rita definisce “tenace continuismo” a fronte delle discontinuità dei contesti specifici in cui ha realizzato la ‘Sua’ personale esperienza?

I nostri errori fanno parte del nostro vissuto; e se ne compiono sempre in tutte le attività che svolgiamo oltreché nella vita personale. E poiché la vita è una recita che non ammette repliche dopo la ‘’prima’’ spesso non abbiamo neppure la possibilità di rimediare ai nostri errori. Non c’è dubbio che l’esperienza più importante è stata quella sindacale. È durata ventotto anni, è stata molto formativa perché ho avuto la fortuna di viverla in un periodo importante, ho lavorato e conosciuto grandi personalità e ho ricoperto incarichi di prestigio. Soprattutto l’esperienza sindacale mi è stata utile perché si intrecciava con i miei interessi di studio che non ho mai abbandonato  dopo la laurea in diritto sindacale e mi ha consentito di interloquire con i più grandi giuslavoristi del mio tempo, come Federico Mancini e Gino Giugni. In un certo senso, per il ruolo che ricoprivo nel sindacato, ho sempre fatto parte della loro scuola. Fino alla mia amicizia con Marco Biagi. Nel sindacato ho contratto il grande amore della mia vita: le pensioni, il welfare. Un sapere che mi ha sempre tenuto a galla in tutte le vicende, spesso travagliate che ho attraversato. Per concludere devo riconoscere che la vita è stata molto generosa con me. Dopo gli studi volli fare il sindacalista rinunciando alle altre opportunità che si offrivano ad un laureato. Poi negli anni queste opportunità si sono presentate nella mia vita una dopo l’altra: sono diventato un dirigente dello Stato, in questo ruolo ho trascorso ben 13 anni ai vertici degli Istituti previdenziali, ho avuto incarichi di docenza universitaria e ho fatto parte del Parlamento, per una sola legislatura, ma ricoprendo un ruolo da protagonista nella legislazione del lavoro. La vanità mi porta, benché quasi ottantenne a stare ancora sulla breccia, fino a quando non verrà il momento di dire come il vecchio Simeone ‘’Nunc dimittis servum tuum, Domine’’.

L’ex Presidente della BCE Mario Draghi , nella lectio magistralis per il conferimento della laurea ad honorem presso la Cattolica di Milano ha indicato tre caratteristiche che il decisore politico deve possedere: la conoscenza, il coraggio e l’umiltà. Ritengo che la conoscenza sia il prerequisito per esercitare un mandato pubblico secondo i principi della competenza e della responsabilità. Il coraggio può essere inteso come la capacità di valutare la soluzione migliore in una situazione complessa e la decisione di  perseguirla anche a costo di apparire impopolari. L’umiltà è la capacità di procedere nel proprio  impegno avendo a cuore non i personali interessi o punti di vista ma il raggiungimento del bene comune. Se – assunto per vero questo aforisma – diamo per scontata la loro complementarietà , di quale tra queste tre doti Le sembra più carente la politica, oggi?

Di tutte e tre, salvo eccezioni che pur esistono. Ma con Dante potremmo dire: ‘’Giusti son duo ma non vi sono intesi’’. La conoscenza è addirittura ritenuta inutile, tutto è diventato un’opinione. Abbiamo rovesciato lo schema hegeliano: è reale ‘’il percepito’’. E la politica deve regolarsi sulla base di quanto l’opinione viene indotta a ‘’percepire’’ i complessi problemi del nostro tempo attraverso rappresentazioni infedeli e l’implementazione dei pregiudizi. Il coraggio è diventato spregiudicatezza, l’umiltà è considerata una debolezza.  Vince chi  fornisce  soluzioni semplici per i problemi ovviamente senza  la pretesa di risolverli. Pensi a come è stato trattato il problema strutturale dei migranti negli anni scorsi prima delle elezioni e dopo. 

Stiamo vivendo una stagione densa di criticità a motivo della pandemia in atto. Non Le chiedo di cimentarsi nell’ipotizzare risposte alle cause scatenanti di questo tsunami che sta investendo l’umanità  (che palesa discordanze tra gli stessi scienziati) , quanto di inquadrare la dimensione delle ricadute economiche di questo sconvolgimento, a livello nazionale e internazionale. Mi pare di cogliere uno scivolamento dalle ragioni della geopolitica agli assetti  ma anche alle conseguenze negative di un nuovo scenario sul piano geoeconomico:  ciò non aiuta a far valere le alleanze, se mai espone al rischio di politiche espansive che possono egemonizzare i mercati partendo da nuovi punti di forza. In primis le mire espansionistiche della Cina, a margine anche del fenomeno pandemico: tra i pochi Paesi con il PIL positivoCondivide questa valutazione?

Io non sono ottimista. Come ha stimato la Confindustria proprio in questi giorni il quarto trimestre non avrà lo sprint del terzo, ma tornerà il segno negativo a causa delle chiusure che sono state adottate per reagire al secondo tempo del contagio. Mi preoccupa soprattutto l’incapacità del sistema Paese, partendo dal governo, dalla classe politica fino alle organizzazioni sociali, di andare oltre la politica dei ‘’ristori’’. Sta passando l’idea di un assistenzialismo di massa, che le risorse debbano essere utilizzate per tirare avanti senza lavorare né produrre. Diciamo che nulla sarà come prima ma a suon di miliardi presi a debito non facciamo altro se non congelare il vecchio mondo, come se, passata la pandemia, potesse ripartire come prima, con le stesse aziende, gli stessi organici, i medesimi livelli produttivi fino all’ora X ibernati attraverso la cig (‘cassa integrazione guadagni’ – ndr) da Covid 19, il blocco dei licenziamenti, i vari bonus a fondo perduto.

Gettando uno sguardo d’insieme sul vecchio continente si coglie l’immagine di uno scacchiere dove le pedine sono paralizzate dal timore delle mosse dei giocatori: si avverte l’assenza di un play maker in grado di agire sulla base di una conoscenza esperta, di una silente ma efficace presenza al di fuori e al di sopra dei “particulari” impedienti, in possesso di una visione non solo tattica ma strategica di lunga deriva, una mente capace di contemperare le divergenze unificandole e portandole a sintesi necessaria nel perseguimento di risultati rassicuranti e ispirati al bene comune. Quanto è diventato complicato portare a compimento il progetto politico di un’Europa unita pensato dai suoi padri fondatori? Quanto è rischioso affrontare i temi del momento ma anche l’idea di una ripartenza dell’economia 4.0  che renda solidali gli Stati membri dell’UE?

Ci sono due leader dotati di una visione dell’Europa: Macron e la Merkel. La Cancelliera ha visto il suo ultimo semestre della presidenza di turno requisito dalla pandemia di cui ha dovuto occuparsi anche nel suo Paese. Pur tuttavia ha sostenuto e patrocinato la svolta della Commissione. Quella del Recovery Fund può essere un’occasione irripetibile, ma nessun Paese se lo troverà scodellato in un piatto, se l’operazione di carattere economico non sarà sostenuta da un progetto politico comunitario. Si è citato in questi mesi il Piano Marshall del dopoguerra che non fu solo un disegno illuminato per la ricostruzione dell’Europa (allo scopo di evitare gli errori commessi alla fine della Grande Guerra che poi portarono in pochi decenni al Secondo conflitto mondiale), ma partiva dal progetto di un’alleanza tra Stati fondata su valori di democrazia e libertà non solo politiche ma anche economiche. E tutti i Paesi che aderirono assunsero anche lo stesso modello di sviluppo: i beni di consumo durevoli che erano molto richiesti sui mercati internazionali. In Italia, non solo per le istanze geopolitiche di quei tempi, i cui confini d’influenza erano state poste a Yalta, ma anche sul terreno delle strategie economiche fu sconfitta la sinistra nel 1948. Il suo modello di sviluppo (si pensi al Piano del Lavoro della Cgil) era incentrato sullo sviluppo di un mercato interno, mentre il miracolo economico ebbe come motore le esportazioni ovvero la capacità del nostro sistema produttivo di liberarsi dei prodromi dell’autarchia e di competere sui mercati internazionali. 

Ci si interroga sul Recovery Fund e sull’utilizzo degli oltre 200 miliardi previsti per il rilancio del nostro Paese. Trovo che ci sia molta enfasi sull’eccesso di annuncio a fronte di un differimento temporale dei benefici. Questa straordinaria opportunità – paragonata ad una sorta di Piano Marshall troverà una classe politica preparata a gestirla? Si fanno ipotesi e congetture, tassonomie e priorità ma la sensazione è che manchi una visione d’insieme lungimirante, organica e di lunga deriva. Sulla base della Sua esperienza di economista ha qualche indicazione da suggerire?

Oggi, sia pure in forme diverse, si pongono i medesimi problemi che abbiamo ricordato prima: globalizzazione o protezionismo; statalismo o iniziativa privata; società aperta o dirigismo; multilateralismo o isolazionismo; integrazione o sovranismo. Il Recovery Fund si muove, in una direzione coerente, nel contesto di queste opzioni. E’ importante che Donald Trump sia stato sconfitto e che gli Stati Uniti ritornino sui loro passi, alla guida di una comunità di Stati sempre più integrati negli ordinamenti e nell’economia. L’elettorato americano ha tagliato la testa del serpente. Quanto alle indicazioni bisogna trovare il coraggio del naufrago citato dal Manzoni: abbandonare l’appoggio precario che ci ha sostenuti finora (la politica del ‘’ristori’’ appunto) per aggrapparci a qualche appiglio più solido. Ci vuole  una nuova visione dell’Europa fondata sul raggiungimento di nuovi obiettivi che devono essere il più possibile comuni ed integrati, nel perseguimento dei quali (pensi ad un nuovo assetto delle infrastrutture, della viabilità e dei trasporti) ogni Stato sia chiamato a svolgere la sua parte.

Il famoso MES ha diviso la politica italiana e lo stesso Governo. Le ragioni per usufruirne o meno sono polarizzate e inconciliabili. Parlandone con lui, il Prof. Cottarelli mi ha espresso il convincimento che, in ragione delle finalità di questo ipotetico finanziamento a interessi prossimi allo zero, si tratti di una opportunità da non perdere. Tuttavia chi si oppone lo fa con argomentazioni decise e non negoziabili. Un’altalena di sì e di no che certo non aiuta a immaginare un piano di riassetto e rilancio del sistema sanitario messo alle corde dal Covid e da anni di tagli alle spese. Osservo – come semplice cittadino- che mentre gli ospedali sono intasati e privi di strutture, il personale sanitario messo in una condizione di stress professionale al limite, indulgere delle diatribe del possibilismo inconcludente sia più negativo di qualsiasi decisione che poteva essere presa da tempo. Procrastinamento, rinvio, incertezza procedurale paralizzano il Paese e spaventano la pubblica opinione.  Qual è la Sua valutazione al riguardo?

Non aderire al Mes è stato un errore, un ‘’perseverare diabolicum’’. Era una scelta da fare subito a maggio/giugno. Certo, il contagio corre molto più in fretta delle misure di contrasto che si sarebbero potute adottare da subito. Il prestito del Mes sanitario era più conveniente sul piano dei tassi di interesse rispetto a quelli dei nostri titoli di Stato (0,01% a fronte di un tasso medio del 2,4%) che peraltro cominciamo a trovare più difficoltà di sottoscrizione sui mercati (il titolo Futura, l’ultima creatura del nostro debito sovrano, non ha ottenuto il successo auspicato). Non solo i tassi sono più convenienti (e le condizioni sono più chiare) che in altri prestiti a cui abbiamo fatto ricorso (come il Sure). L’impiego del Mes sarebbe stato utile (e potrebbe ancora esserlo) in una prospettiva più lunga. Leggendo con l’attenzione che merita il Rapporto 2020 di coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti ci si accorge che un esame condotto nel  2018 aveva stimato che, per cominciare a dare risposta al fabbisogno per l’edilizia sanitaria su tutto il territorio nazionale sarebbero occorsi circa 32 miliardi. Nel 2018, per di più, nessuno aveva previsto il cataclisma della pandemia né l’esigenza di dedicare interi presidi sanitaria alla gestione della pandemia. Poi, c’è un altro problema. Esiste innanzi tutto un problema di organizzazione del sistema sanitario: evitare il collasso delle strutture ospedaliere che non sono in grado di fare fronte da sole agli effetti del contagio. Come ha certificato la Corte dei Conti:’’ La riorganizzazione della rete di assistenza e l’uso complessivamente più appropriato delle strutture ospedaliere non sempre sono stati accompagnati in questi anni da un’adeguata offerta dell’assistenza territoriale rivolta alla parte “più debole” della popolazione, cioè anziani e disabili’’. L’epidemia ha messo in evidenza un grave handicap strutturale: la medicina del territorio. Poi c’è la questione del personale sanitario, dove si è visto che non esiste un ‘’esercito di riserva’’ e che la carenze sono anch’esse strutturali. In sostanza, io credo che anche il ricorso ai lockdown siano utili se servono a guadagnare tempo per sistemare le cose, per rafforzare il sistema sanitario anche a livello territoriale. Altrimenti diventa un gioco a nascondino con il virus, la corsa tra la tartaruga e Achille che non finirebbe, nella realtà, come nel paradosso di Zenone. 

 La vicenda delle due fasi della pandemia ha dimensioni planetarie. Tuttavia altri Stati hanno adottato misure profilattiche e di gestione dei comportamenti collettivi più semplificati. I nostri DPCM non si contano più (la Germania o la Svezia non ne hanno emanato neanche uno, limitandosi a raccomandazioni senza generare la burocrazia asfissiante che ci sta soffocando) . Trovo che da noi tutto sia maledettamente più complicato che altrove: il decisionismo può essere una buona scelta ma non Le sembra che le decisioni via via assunte abbiano evidenziato persino tratti contraddittori? La gestione dello scorso anno scolastico non è stata ottimale: i mesi di chiusura delle scuole non sono stati usati per programmare al meglio la ripartenza di settembre. Nessuno aveva previsto il problema del trasporto scolastico, i banchi non sono stati ordinati per tempo, gli organici sono rimasti gli stessi. E poi le alternanze di aperture/chiusure degli esercizi commerciali, delle aziende, delle piccole e medie imprese. E ancora la limitazione delle libertà personali, necessaria per il bene comune ma farraginosa. Un esempio: in un Comune è stato deciso il divieto di sosta dei pedoni, in un altro il divieto di passeggio. La multa ad un anziano che leggeva il giornale seduto su una panchina. Consideriamo l’autocertificazione modificata almeno dieci volte. La discrezionalità dei controlli. Ma soprattutto il continuo, devastante conflitto tra Stato e Regioni. Perché l’autonomia dei Lander non produce contenziosi continui come accade da noi? Vogliamo considerare anche il peso della personalizzazione della politica e il timore di assumere decisioni certe e impopolari per ragioni di consenso elettorale?

Le sue sono considerazioni tutte condivisibili. Io credo che in quest’ultima fase si siano adottati provvedimenti a casaccio. Si sono chiusi i locali e gli esercizi in cui erano state adottate dopo il lockdown di primavera misure organizzative che garantivano il distanziamento. Sono stati chiusi i ristoranti, i cinema, i teatri dove gli avventori correvano meno rischi che altrove. Questi provvedimenti sono stati diseducativi perché hanno costretto persone che volevano lavorare a chiedere assistenza. È una strada che non porta da nessuna parte, perché un’azienda non sopravvive soltanto perché al suo proprietario è garantito un reddito che sostituisce i ricavi. Io mi sono chiesto più volte perché nella scuola, invece che la pantomima dell’insegnamento a distanza non si siano diversificati gli orari. Che cosa impediva alle scuole superiori di stare aperte il pomeriggio? Gli studenti si presentavano alle 14 in aula e gli insegnanti lavoravano di pomeriggio secondo il loro orario normale. In questo modo si sarebbe ridimensionato anche il problema del trasporto locale. Spesso i presidenti delle Regioni sono passati da un giorno all’altro da una posizione orientata alla massima chiusura ad un’altra che chiedeva maggiore elasticità. Hanno chiesto che fosse il governo a decidere rivendicano poche ore dopo maggiore autonomia. I governatori – non tutti – si sono giocati il prestigio acquisito nella prima fase.

Una  ricerca dell’Università ‘La Sapienza’ , che ho avuto modo di recensire, evidenzia il problema della sostenibilità generazionale , che non si riduce solo alla statistica  di chi lavora e paga le pensioni di chi non lavora più,  ma va vista  in un’ottica di medio-lungo periodo nella tenuta stessa del sistema. Il sociologo Luca Ricolfi ha descritto il fenomeno “della società signorile di massa” dove la generazione dei nonni e dei padri mantiene quella dei figli secondo una logica di rendita ereditata ma improduttiva. Emerge il problema della centralità del lavoro che non esce dal cilindro del mago di turno, poiché comporta i temi della scelta negli investimenti, della competizione sui mercati, della giustizia sociale ecc. Ecco allora che emerge il tema della “Ripartenza”, del rilancio industriale, delle scelte dei settori produttivi, del taglio dei rami secchi, dell’ecologia (“green economy”) e della digitalizzazione. Bastano questi contesti o serve la prospettazione di un “modello sociale di sviluppo”? Osservo che l’Italia è diventato il Paese dei “bonus senza controllo”: sono secondo me bocconi elettorali gettati al lupo che ci insegue. Chi avrà mai il coraggio di una drastica revisione delle politiche di spesa pubblica? E questo si potrà fare senza intaccare il principio costituzionale della giustizia sociale?

L’ho detto prima. Anche questa volta il Covid ha fatto politica, hanno funzionato il bastone delle chiusure di colore cangiante e la carota dei ‘’ristori’’ ( ormai è questo il concetto chiave della neoeconomia italiana). Sono bastati alcuni giorni per passare alla rivendicazione di più consistenti ristori dalla protesta – anche violenta – per la messa in quarantena di attività economiche che non avevano alcuna responsabilità (o almeno non era dimostrata) nell’impennata della curva dei contagi e che, dopo il lockdown di primavera, avevano sostenuto, in proprio, gli oneri della messa in sicurezza secondo le disposizioni di legge (anzi di DPCM). Siamo partiti dal ‘’fateci lavorare’’ per arrivare in breve, e comprensibilmente,  al ‘’tengo famiglia anch’io’’. Pur con tutte le tensioni aspre che attraversano la società, il Paese vive – come afferma una canzone del grande Lucio Battisti – una ‘’sensazione di leggera follia’’: finalmente è consentito spendere quanto è necessario, senza preoccuparsi dei vincoli di bilancio. Se le risorse in deficit non bastano, se si devono finanziare altre settimane di cig-Covid (e continuare a bloccare i licenziamenti) oltre le originarie previsioni, c’è sempre la possibilità di chiedere e ottenere dal Parlamento un altro scostamento di bilancio. Ormai ci sta anche l’opposizione, che non si accontenta di una legge di bilancio da 38 miliardi; ne chiede una da 100. Caso mai il problema non riguarda l’an, ma il quantum e il quomodo.  Come si fa a non capire che non ha prospettive una situazione in cui lo Stato si candida a garantire non solo i redditi, ma anche i ricavi? Che la cig (‘cassa integrazione guadagni’- ndr)a zero ore non è un posto di lavoro? Che di un negozio chiuso non è assicurata la riapertura se l’Agenzia delle Entrate fa pervenire un bonus sul conto corrente del titolare? Certo, è indispensabile il ‘’primum vivere’’. Ma noi sappiamo anche che nessun pasto è gratis. E sappiamo anche chi pagherà per i  nostri pasti in regime di ‘’ristoro’’.   La società signorile di massa si sta trasformando in una società assistita. 

Max Weber aveva pensato alla burocrazia come motore necessario per il funzionamento degli apparati. Mi pare che la prassi in uso nella nostra burocrazia assomigli più ai distinguo della logica bizantina: lentezza esasperante nelle procedure, fardello insopportabile per il cittadino e l’impresa, affastellamento di competenze in contrasto tra loro che incrementano la lentezza della giustizia civile e i contenziosi, motivo di frustrazione e di esasperazione per chi vorrebbe creare lavoro e quindi ricchezza. Eppure da due anni va avanti la sperimentazione del reddito di cittadinanza distribuito senza criteri e senza controllo, l’affidamento ai cd. “navigator” del compito di trovare lavoro ai percettori del reddito. Sempre da una ricerca della Sapienza si stima che sia stato trovato lavoro a una minima parte del totale dei percipienti. Gli uffici prov.li del lavoro restano arcaiche strutture improduttive. Eppure nella legge di bilancio questa voce prevede un aumento di fondi ad hoc. Condivide questa scelta?

Il presidente dell’ANPAL Mimmo Parisi  ‘’l’uomo venuto dal Mississippi’’  a ‘’miracol mostrare’’  in tema di piattaforme informatiche, nei giorni scorsi, l’11 novembre, durante una audizione in Commissione  Lavoro della Camera ha dichiarato che oltre un quarto dei beneficiari del reddito di cittadinanza tenuti alla sottoscrizione di un patto per il lavoro (1.369.779) ha trovato un lavoro da quando è stata istituita la misura. Si tratta di 352.068 beneficiari, pari al 25,7%.  La grande maggioranza dei contratti è stata a tempo determinato e al 31 ottobre i beneficiari RdC con un rapporto di lavoro ancora attivo erano 192.851. Ho voluto approfondire la materia perché il risultato mi sembrava, tutto sommato, importante. Ho trovato delle  discrepanze  tra i dati forniti dall’ANPAL,  l’11 novembre  e quelli registrati fino alla data del 10 febbraio 2020. Allora si disse che i beneficiari del RdC che avevano avuto un rapporto di lavoro, dopo l’approvazione della domanda, erano 39.760. Quanto alle caratteristiche soggettive, il 67,4 per cento dei beneficiari aveva un’età inferiore ai 45 anni. Circa poi alle tipologie dell’occupazione, il 65,2 per cento era a tempo determinato, il 19,7 per cento a tempo indeterminato, il 3,9 per cento in un rapporto di apprendistato. Nella ricerca del lavoro, fu confermato,  continuavano ad avere un ruolo predominante, in Italia, i canali informali (costituiti da parenti, amici e conoscenti: 87,2 per cento contro l’87,9 per cento nell’intero anno 2018). Che da febbraio a novembre – con 100 giorni trascorsi in lockdown  con le ben note conseguenze sull’economia –  le occasioni di lavoro siano state quasi duplicate sembra abbastanza improbabile. Ci vorrebbe, almeno, una spiegazione.

La vita ci insegna che non esiste economia sostenibile senza una solida base etica.  Che cosa impariamo da questo assioma? Forse che nulla ci viene regalato e che tutto quello che possiamo procurarci in nome del progresso comporta pur sempre fatica, rinunce e sacrifici? Che cosa possono fare la famiglia e la scuola per educare i giovani al senso civico e al rispetto degli altri?

Mandare a memoria una frase di Norberto Bobbio: ‘’I diritti umani anche se sono stati considerati sin dall’ inizio  naturali, non sono stati dati una volta per sempre.” E spiegare che i nostri diritti sono anche doveri nei confronti degli altri. Il nostro tempo si è ubriacato di diritti. Ci sono subculture recenti che pretendono di scegliersi il sesso e di negare le naturali differenze di genere. Grazie anche ai progressi della medicina e degli strumenti di accertamento delle caratteristiche del nascituro, stiamo trasformando l’aborto da un diritto della donna ad una misura eugenetica che consente non solo di decidere se avere o non avere un figlio, ma quel figlio di cui si conosce tutto dal momento del concepimento.   Poi in questa pandemia ci siamo accorti che Matusalemme è diventato Erode. Il virus colpisce gli anziani e i vecchi ma il costo socioeconomico ed esistenziale delle misure di ‘’mitigazione’’ lo pagano i giovani, oggi con la disoccupazione, domani ereditando un mondo sfasciato nell’economia e oberato di debiti. Vede, tra pochi mesi io compirò 80 anni. Come diceva all’inizio della nostra conversazione ho avuto tutto dalla vita. Non per merito mio ma perché ho vissuto in un’epoca storica che lo consentiva. Adesso mi pongo una domanda: che diritto ho io, che diritto ha la mia generazione di prosciugare le risorse di quelle future soltanto per rubacchiare qualche anno di vita in più?