Giuseppe Blasi, sviluppo e rilancio delle comunità di montagna

In questi Comuni si assiste ad una inarrestabile caduta demografica

Contributo scritto, in assenza dell’autore, al convegno su “Il futuro dei piccoli comuni di montagna”, organizzato ieri mattina dalla rivista mensile “Borghi Magazine” a Poggiodomo, municipio di 101 abitanti in provincia di Perugia.

Lo sviluppo dei Comuni di Montagna è un problema fortemente dibattuto da molto tempo, purtroppo senza grande successo.

Il Caso Poggiodomo è simile a tante altre realtà italiane; vi faccio un altro esempio molto significativo e da me ben conosciuto, perché si tratta del mio Comune di origine e residenza, situato sul versante pesarese dell’Appennino Umbro-Marchigiano, dove nel 2018, su di una popolazione di poco inferiore ai mille abitanti, sono stati registrati 15 decessi e nessuna nascita.

Se allarghiamo lo sguardo, ci rendiamo conto che quasi un terzo del territorio nazionale è lontano più di 40 minuti (spesso più di 80) da centri che offrono un sistema completo di servizi di base, vale a dire scuola, salute e mobilità. Su questi territori, vive il 7,6 per cento della popolazione italiana, pari a circa 4 milioni e mezzo di cittadini.

Si tratta di aree caratterizzate da grande diversità naturale, produzioni agro-alimentari di assoluta eccellenza, anche se di nicchia, un patrimonio culturale e paesaggistico inestimabile, usi e consuetudini locali di grande interesse.

Nonostante tutti questi pregi, in questi Comuni si assiste ad una inarrestabile caduta demografica: meno 1,4 per cento fra il 2001 e il 2011; un progressivo invecchiamento della popolazione; una forte riduzione del presidio e della manutenzione del territorio, in particolare dei boschi e dei pascoli, ma anche degli edifici e delle infrastrutture viarie, con effetti negativi anche sulle altre aree del Paese, soprattutto per quanto concerne il dissesto idrogeologico e le calamità naturali.

Le politiche comunitarie, in particolare quelle per la Coesione e lo Sviluppo Rurale, hanno dedicato, fin dalla loro nascita (avvenuta alla fine degli anni ’80), una grande attenzione alla dimensione territoriale dello sviluppo. Ciò significa essenzialmente un’attenzione alle differenze territoriali e ai fabbisogni specifici che i diversi territori esprimono.

Tuttavia, la riduzione dei divari territoriali è stata interpretata in passato per lo più in chiave di divari tra Regioni, dove la Regione corrisponde ad una determinata unità amministrativa.

In realtà, nel tempo è emersa la necessità di concepire una politica regionale in cui è sempre più importante l’articolazione sub-regionale e il coinvolgimento degli attori locali, sia nella definizione sia nell’attuazione delle politiche.

Questa nuova politica, che parte da una articolazione territoriale molto più dettagliata, ha come criterio definitorio l’accessibilità ai principali servizi di base, vale a dire scuola, sanità e ferrovie e, sulla base di questo, identifica le profonde differenze che esistono all’interno sia delle Regioni ricche, sia di quelle povere, tra territori centrali e territori periferici, in termini di scarso e/o problematico accesso a questi servizi, e delle ricadute che questa situazione strutturale provoca sui processi di sviluppo economico e sulle possibili politiche volte a sostenerne il rilancio.

E’ nata così la politica delle aree interne, lanciata dal Governo in corrispondenza dell’avvio del periodo di programmazione 2014-2020, oggi in fase di lenta e difficoltosa attuazione.

Non vi preoccupate, non voglio fare una relazione sulle aree interne, voglio però partire da questa esperienza, per cercare di capire cosa manca per il rilancio dello sviluppo.

La politica in favore delle aree interne non ha preso a riferimento solo l’accessibilità ai servizi di base, ma anche la governance, in particolare cercando di stimolare gli attori locali già nella fase dell’elaborazione delle strategie di sviluppo.

Questo approccio, si caratterizza anche per l’impegno congiunto del Governo nazionale, delle Regioni, e dei Comuni coinvolti.

Si tratta di un’impostazione molto complessa, perché comporta un forte impegno in termini di risorse umane e tempo, per enucleare quelle energie nascoste e quelle potenzialità che vanno sollecitate con un’attenta operazione di scouting.

E’ necessario lavorare come in laboratorio, ma senza conoscere le formule precise per le giuste combinazioni.

Innanzitutto, occorre rafforzare l’osservazione e la conoscenza dei luoghi, attraverso un’analisi in grado di individuare esperienze innovative sui temi socio-ambientali, sui nuovi abitanti delle aree interne, sui percorsi nelle pratiche di produzione e consumo alimentare, sulla produzione di qualità in agricoltura.

Molto spesso, l’esistenza di forme di gestione associata rappresenta un importante segnale sulla capacità di progettazione dei vari interventi; si tratta di una condizione determinante per attivare efficacemente un progetto pilota e, soprattutto, costituisce una condizione fondamentale per rendere permanenti gli interventi realizzati.

Il ruolo dell’agricoltura e delle foreste nei processi di sviluppo locale in questi casi è sempre rilevante. Se guardiamo bene, queste aree sono sempre caratterizzate da grandi potenzialità di sviluppo di produzioni agro-alimentari di qualità, ma frenate da problematiche di tipo organizzativo, sul versante della cooperazione tra produttori, su quello dell’integrazione della filiera e su quello dell’accesso al mercato.

Lo stesso discorso vale per la filiera del legno, caratterizzata da forte potenzialità nella fornitura di due categorie di prodotti e servizi: i prodotti con mercato, vale a dire legname ad uso industriale, legna per bioenergia e prodotti forestali non legnosi, e i servizi ambientali e sociali, fortemente legati anche allo sviluppo del settore turistico.

Le possibili interdipendenze con altri settori dell’economia locale sono rilevanti, ma manca un’iniziativa seria per favorire l’associazionismo privato e una gestione delle proprietà pubbliche, molte delle quali sono sotto-utilizzate o abbandonate.

E veniamo al dunque del problema.

Se guardiamo bene, non mancano le risorse o le possibilità, mancano le persone che possano tradurre queste possibilità in azioni concrete.

Da questo punto di vista, un ruolo fondamentale è affidato ai Sindaci, che da soli non possono certo innescare lo sviluppo di un territorio, ma possono sicuramente favorire la nascita di iniziative da prendere ad esempio, in modo che a queste possano seguirne altre, e far ripartire il sistema.

È necessario quindi scegliere bene le persone, perché è sulla qualità delle persone che si costruisce il futuro di una comunità.

*Giuseppe Blasi

Capo Dipartimento politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale

(Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo).