“Inizio le mie vacanze, ma non mi allontano di molto. Vado in montagna e non so, a 1800 metri d’altezza, se avrò copertura per cellulare e IPad. Forse sconterò un po’ di sano distacco dalle comodità quotidiane”. Giuseppe De Mita, anche se con le valigie in mano, scambia volentieri qualche pensiero sulle vicende politiche prima che ci si immerga nella pausa ferragostana.
Ma sarà vera pausa? Mi sembra, caro Giuseppe, che lo spettro delle elezioni anticipate si allontani. In fondo darla vinta a Salvini, subendo il suo diktat, sarebbe stato un errore. Non è così?
Sì, ritengo anch’io che votare al buio, sotto la spinta impetuosa della Lega, avrebbe implicato una defezione dal campo della responsabilità politica. Sì può tentare l’avvio di una fase nuova. A patto che si definiscano bene i contorni dell’operazione.
Ecco, l’oscillazione sulle prospettive – governo di scopo o governo di legislatura – mostra quanto sia complessa la manovra di aggancio tra Pd e M5S. Più complessa, diciamo, delle convenienze a breve.
Noi abbiamo dato un segnale, nel nostro piccolo, con la proposta del “governo di tregua” avanzata da Costruire Insieme, Politica Insieme e Rete Bianca. Il documento licenziato qualche giorno fa andrebbe valorizzato e approfondito. Il mio giudizio è positivo: certamente si deve evitare un ricorso precipitoso alle urne. Tuttavia capisco le obiezioni che Zingaretti ha sollevato, perché un “accordicchio” non risolverebbe i problemi e consegnerebbe la legislatura a un prosieguo stentato, privo di energia e consistenza politica. Che senso avrebbe?
C’è da ricordare, però, che i governi hanno un che di aleatorio, sempre, anche quando nascono con l’obiettivo di durare a lungo. Di Maio e Salvini, in questo anno, si sono spalleggiati ripetutamente nella recitazione scolastica sulla tenuta della maggioranza gialloverde. Ora, di colpo, questa maggioranza è andata in frantumi. Oltre le intenzioni, dunque, contano i fatti.
È vero, la preoccupazione sulla data di scadenza del possibile nuovo governo rivela la fragilità di questo approccio un po’ guardingo, direi fin troppo tattico. I governi durano finché ne restano valide le ragioni di sussistenza. Tutto dipende dalla qualità del percorso che verrà sviluppato. Le premesse, al momento, rimandano a un necessario ma di per sé insufficiente ricorso alla “procedura d’urgenza”: gli attori della svolta si accingono a consumare un matrimonio fondato sulla opportunità di frenare la deriva autoritaria di Salvini. Invece serve un discorso a più ampio spettro. Lo stesso Renzi, non smentendo i pregi e i difetti del suo carattere di abile pokerista, ricolloca nell‘ambito del suo sperimentatomovimentismo l’istanza di una diversa e più corretta visione del cambiamento.
È un cambiamento sui generis. Ricordo che Enzo Carra, scrivendo in queste ore per noi, ha definito quella in corso una “crisi giolittiana”. Si tende cioè a risolvere tutto o quasi nel gioco stretto degli equilibrismi, più dentro che fuori delle Aule parlamentari. È un giudizio troppo severo?
No, è un giudizio appropriato. Quando riemerge, sempre a proposito di Renzi, la convinzione che il popolo italianoabbia sbagliato nel referendum sulla Costituzione, allora vuol dire che l’analisi della crisi non affronta le cause più remote e profonde. Ancora dobbiamo capire perché alle politiche, lo scorso anno, gli elettori hanno dato disco verde alla locomotiva del populismo. In assenza di un dibattito all’altezza dei problemi, ogni proposta finisce nel cono d’ombra di un pesante deficit di motivazione. È come se camminassimo bendati sul ciglio del precipizio, ignari del pericolo. E litigassimo sulla disposizione della fila…
Sì, la metafora rende bene il concetto, a condizione che ne sia estraneo un retro pensiero di tipo pessimistico. Non siamo, noi, quelli che adombrano la suggestione di un nuovo partito? E perché dovremmo impegnarci in questa direzione, se poi restiamo incatenati a un sentimento di rassegnazione? Celebrare, come abbiamo fatto, i cento anni dell’appello di Sturzo ai “liberi e forti” dovrebbe instillare un senso di maggiore fiducia. Non credi?
Sono d’accordo con te. Forse mi sono spiegato male: non è il pessimismo l’abito della nostra azione morale e politica. Anzi! Volendo andare oltre l’aridità della critica, pesa (anche) su di noi il carico di una seria meditazionepolitica sulle prospettive del Paese. Il tema non è se e come occupiamo uno spazio, virtualmente al centro, bensì cosa significhi in termini di valori e programmi questa specifica dislocazione sullo scacchiere politico. A me piacerebbe che rileggessimo il discorso di Moro alla Costituente, quando arrivò a formulare nella dialettica con Calamandrei l’esigenza di assumere alcuni grandi e vitali principi, poi trasfusi nei primi tre articoli del Testo, come missione fondamentale e ineludibile della rinnovatademocrazia italiana.. Pensiamo, ad esempio, al dato emblematico di una nazione “fondata sul lavoro” (art. 1), al rispetto dei ”doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2), all’impegno per la rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3). Qui sta il nocciolo duro, a mio parere, di una nostra ripresa d’iniziativa politica. È pessimismo?
Direi proprio di no! Ma se questo è l’orizzonte che ci deve interessare, tanto vale riconoscere l’urgenza di un grandedibattito aperto, un vero seminario politico, da cui far scaturire quelle che potremmo chiamare con un pizzico di orgoglio – spero non di presunzione – le nostre “idee ricostruttive”.
Sottoscrivo. E se non lo dovessimo fare…altro che pessimismo.