Giuseppe Sabella: “Ecco il Green New Deal di Europa e Italia”

Giuseppe Sabella è ricercatore sociale e direttore di Think-industry 4.0. Collabora e ha collaborato con diverse testate - Il Sole 24Ore, Rai News, Il Sussidiario e Start Magazine - ed è commentatore economico per il TGcom24 di Mediaset. È inoltre autore di diversi saggi sui temi dell'industria e del lavoro tra cui Società aperta e lavoro (con Giulio Giorello, Cantagalli 2019), L'altra storia del sindacato (con Giuliano Cazzola, Rubbettino 2018), Fabbrica intelligente (introduzione di Carlo Stagnaro, Cantagalli 2018), Da Torino a Roma (introduzione di Giorgio Squinzi, Guerini e Associati 2015). Ha appena pubblicato il Suo ultimo saggio economico 'RIPARTENZA VERDE - industria e globalizzazione ai tempi del COVID' editrice Rubbettino.

Direttore, prima di addentrarci nell’intervista, penso sia doveroso rivolgere un pensiero affettuoso al Prof. Giulio Giorello che ci ha lasciati recentemente e di cui Lei è stato allievo, collaboratore e coautore di importanti pubblicazioni. Oltre l’aspetto affettivo – il Prof. Giorello era una persona “che si faceva voler bene” – cosa ci resta delle intuizioni e della profondità del Suo pensiero? Vorrei che fosse Lei a ricordarcelo, vista la Vostra intensa e proficua frequentazione.

Giulio, come Lei dice, era un uomo amabile, sia per il suo carattere affabile e generoso, sia per le sue intuizioni. Il tempo trascorso con lui era speciale, era un tempo pieno, ricco. Anche all’età di 75 anni, la sua mente libera e creativa continuava a generare idee affilate e cariche di ironia. Era così anche quando ero studente, parliamo di 25 anni fa. Le sue lezioni erano molto frequentate perché oltre a essere molto interessanti lui si faceva amare. Per quanto riguarda il profilo scientifico, Giorello è stato allievo di Ludovico Geymonat e filosofo che non solo si è dedicato agli studi epistemologici, a Karl Popper in particolare e a chi ne ha discusso le posizioni, ma che – proprio come Popper – ha creduto che il metodo scientifico fatto di congetture e confutazioni potesse essere anche il giusto metodo per la costruzione della democrazia liberale. Non a caso, nel nostro “Società aperta e lavoro” c’è un capitolo che si intitola “dalla fabbrica dei cieli alla società aperta”. Giorello aveva questa sana tensione alla vita civile. In poche parole, Giorello è stato un intellettuale, figura che manca così tanto ai nostri giorni.

Ci racconta un episodio che ritiene significativo e che, magari, riguarda anche Lei?

Proprio nel periodo della tesi che mi fece fare su Geymonat, successe un giorno che in modo molto efficace e garbato – come del resto era lui – volle darmi una tiratina d’orecchie dopo aver letto il primo capitolo che avevo scritto. Avendo intuito la mia passione per la metafisica (kantiana ed hegeliana in particolare), mi disse così: Sabella, sa cosa dice Aristotele nell’Etica? Pensi pure Platone al bene in sé, noi vogliamo il bene di questi cittadini qui. Io gli feci quella che secondo me resta un’obiezione valida: Professore, come si fa a volere il bene di questi cittadini qui se non si ha un’idea di bene? Tuttavia, la sua provocazione mi è rimasta dentro a lungo perché, nonostante la mia tesi in filosofia della scienza, continuavo ad amare Kant e Hegel in particolare. E non posso dire oggi di non amarli più, sono stati letteralmente due eroi per me negli anni del corso di laurea. Ho compreso nel tempo che la sua domanda aveva un senso di verità molto profondo e che sintetizzava bene il suo pensiero: o le idee sono in grado di agire e di modificare la realtà o non sono nulla, sono astrazioni. E, contro queste astrazioni, lui ha condotto fino all’ultimo la sua battaglia. Sono convinto, oggi, che se possiamo parlare di verità, la verità è dentro questa tensione che c’è tra Platone e Aristotele, come tra Hegel e Marx, e che è una tensione al vero. E al bello.

È appena uscito il Suo ultimo libro edito da Rubbettino, “RIPARTENZA VERDE – industria e globalizzazione ai tempi del COVID”. Leggendolo si ha l’impressione di un saggio che segna una svolta nei Suoi interessi culturali: dall’industria e il lavoro all’economia, intesa in senso lato, con una valenza quasi esplicativa, ermeneutica e riassuntiva di quello che sta accadendo nel mondo dopo lo shock della pandemia. Intuizione che emerge già leggendo la sinossi del quarto di copertina. Si coglie una prevalenza fattuale della geoeconomia sulla geopolitica come modello esplicativo della realtà. È un’impressione adeguata al senso da Lei proposto nel Suo lavoro?

È trascorso più di un trentennio in cui la politica si è preoccupata essenzialmente di rompere le barriere che ostacolavano la circolazione di capitali e beni nel mondo – cosa che non è una male di per sé, anzi… – senza rendersi conto che questo movimento aveva una direzione univoca verso il Sol Levante tanto da rendere la Cina un colosso e da consegnarci una situazione di impoverimento generalizzato dell’Occidente. Questo perché si è creduto che la ricchezza potesse essere il prodotto dei mercati e degli scambi. Ma nel favorire mercati e scambi, abbiamo permesso agli investitori di andare a cercar fortuna quasi esclusivamente nei paesi a basso costo del lavoro, così da causare un processo di deindustrializzazione che non ha precedenti. La produzione di manifatturiero e la sua quota di PIL corrispondente sono state in costante calo in Occidente; il baricentro industriale si è gradualmente spostato verso quelle economie in grado di offrire rapida crescita a bassi salari: non solo Cina, Asia più in generale, India ed Europa dell’est. Già negli anni ‘80 in Occidente il numero degli occupati nel comparto dell’industria calava dal 35% al 30%; negli anni ‘90 ancora giù al 24%. Oggi la Cina è il più grande paese manifatturiero del mondo (quasi un terzo sulla produzione manifatturiera mondiale), in forte miglioramento rispetto al 8,3% registrato nel 2000, davanti agli USA e ai grandi Paesi Europei (Germania, Italia e Francia). Tutto ciò, a Ovest, ha voluto dire crollo degli investimenti, indebolimento del lavoro e del potere d’acquisto, consumo sostenuto dal debito e bolla finanziaria che a un certo punto scoppia. E, negli anni della crisi, le economie occidentali hanno perso 13 milioni di posti di lavoro. Nel ventennio della prima globalizzazione sono stati circa 20 milioni i posti cancellati nel comparto industriale, quasi 1 addetto su 5. Oggi l’industria in Europa occupa il 15% dei lavoratori, in Italia il 17%. Da qualche anno, tuttavia, questa tendenza si è interrotta e – da questo punto di vista – la pandemia è un acceleratore del cambiamento.

Già dalle prime pagine emerge in modo deciso e argomentato come Lei intenda cogliere in estrema sintesi i fattori prodromici al contesto attuale. In primis la prevalenza della scienza e della tecnica rispetto alle ideologie, direi dalla rivoluzione industriale in qua, e non si tratta di un elemento incidentale. Poi negli ultimi due decenni del secolo scorso le macchine elettroniche e la globalizzazione, come fattori hanno inciso radicalmente segnando un’evoluzione decisiva della deriva tecnologica verso lo scenario attuale, quello del digitale, dell’industria 4.0, delle supply chain e della superpotenza cinese. Il COVID-19 ha giocato il ruolo dell’imprevedibile sconquasso. In che misura peserà sul dopo? In che senso Lei afferma che ciò che è locale è anche drammaticamente globale? E in quale direzione occorre progettare una ripartenza di tutto ciò che la pandemia ha drammaticamente bloccato?

La pandemia, come dicevo prima, è indubbiamente un avvenimento traumatico al pari dell’11 settembre e della crisi del 2008, eventi che ci hanno mostrato quello che con una felice espressione Giulio Tremonti chiama il “dark side” della globalizzazione. E il mondo è così tanto interconnesso al giorno d’oggi che, appunto, ciò che è locale è allo stesso tempo globale: ovvero, ciò che succede negli USA (pensiamo al crollo di Lehman Brothers) o in Cina (pensiamo al covid), finisce inevitabilmente – proprio per la forte interdipendenza che vi è tra le aree geografiche del mondo – per riguardare tutti. Va però detto che il cambiamento a cui stiamo andando incontro era già piuttosto delineato da quasi 3 anni. E mi riferisco, in particolare, al rallentamento della produzione industriale e del commercio mondiale (che nei mesi di marzo e aprile 2020 crolla di quasi il 20% ma, appunto, dopo anni di progressiva contrazione). Soprattutto quest’ultimo fattore ha generato una crescente regionalizzazione dell’economia, tanto che qualcuno si spinge a dire che la globalizzazione è finita. Trump è uno di questi, del resto per molti americani vale ciò che diceva Kissinger: “la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”. Trump è proprio colui che pone fine a questo ruolo dominante nel mondo, sin dall’inizio è stato di parola (si pensi al suo manifesto politico “America first”). Chiaro che questa posizione isolazionista degli USA ha avuto conseguenze importanti sullo scacchiere mondiale: la creazione di tre blocchi sempre più distinti – USA, Europa, Cina – e una forte propensione al protezionismo economico, tanto che addirittura l’Europa sta annunciando l’istituzione di dazi doganali. Ad ogni modo, la crescita mondiale non poteva proseguire a lungo per più ragioni, pensiamo in particolare all’irripetibilità del processo di off shoring (le delocalizzazioni produttive), al fisiologico rallentamento della crescita cinese e al back reshoring delle produzioni (ovvero il loro rientro), per altro avviato già negli anni della Presidenza Obama e nel quale anche il nostro Paese si è distinto.

Non sappiamo quale mondo uscirà dalla pandemia: perché allora si può affermare – come Lei fa – che la Cina è indiscutibilmente il grande vincitore della globalizzazione, in parte per propri meriti, in parte per errori altrui? Il Prof Caracciolo direttore di Limes ritiene che ad es. l’Italia non parteciperebbe mai ad una azione risarcitoria verso la Cina (da dove si è diffuso il contagio), proprio a motivo della nostra svolta filocinese, che risale almeno al Memorandum del 2019. Il tema del risarcimento è un tasto sul quale insiste invece Trump e parte del mondo occidentale. La Presidenza Trump, la diffusione pandemica drammatica negli USA, per sottostima del portato reale e delle raccomandazioni della scienza, l’uscita recentissima degli USA dall’OMS ma ancor prima la frantumazione dell’Europa, il declino della NATO, la forte espansione della Cina a 360° sui mercati mondiali: possono essere queste le concause che spiegano il fenomeno?

Quando affermo “la Cina è il vincitore della globalizzazione” mi riferisco unicamente alla fase pre-pandemica. Mi pare del resto evidente: come dicevo prima, negli ultimi 30 anni il mondo occidentale aveva previsto di rilanciare la propria produzione di ricchezza delocalizzando le attività manifatturiere. Ma ciò non è andato secondo aspettative. Anzi, è successo che, in 20 anni, la Cina è cresciuta moltissimo non solo in capacità produttiva ma anche in tecnologia, tanto da essere oggi la più importante manifattura a livello mondiale e il Paese più avanti nella frontiera digitale; ed è l’economia che il mondo e gli USA, l’altra superpotenza, stanno inseguendo. Secondo le nostre previsioni, il processo di off shoring avrebbe dovuto fare la nostra fortuna: in questo modo, producendo a basso costo, avevamo previsto di rafforzare il nostro potere d’acquisto. Non avevamo invece fatto i conti con i cinesi e con la Cina che, invece, abbiamo fatto grande noi, perché lì abbiamo destinato la nostra manifattura, la nostra tecnologia, le nostre competenze, le nostre invenzioni, etc. Tutto questo ha arricchito chi ha investito nei Paesi a basso costo di produzione ma ha impoverito l’Occidente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi la Cina è il vero vincitore della globalizzazione, sebbene il ciclo che viene sia pieno di variabili. Anche io penso che l’Europa terrà un atteggiamento piuttosto neutro nei confronti della Cina – del resto la Germania è il primo partner commerciale di Pechino – ma USA, Francia e Gran Bretagna sono per la linea dura. E, al di là di questo, in Cina ci sono tutte le premesse per una crisi interna, non solo politica ma anche legata ad altri fattori, finanziari e demografici soprattutto.

La contingenza del momento esprime un mix micidiale di alcuni fattori concomitanti: la sovrappopolazione umana sul pianeta, le stime dell’ONU sull’estinzione della biodiversità, la paralisi del mondo del lavoro e della produttività, la crescente povertà che ingloba la maggior parte degli esseri umani sul pianeta, l’incertezza e in larga misura l’incompetenza della politica (che si rivolge ai tecnici e agli scienziati – dunque alla tecnica e alla scienza perché non ha spiegazioni e proposte sue), l’assenza di un controllo demografico con problematiche speculari nei paesi ricchi e in quelli indigenti. Per far ripartire il motore della società civile, dalla scuola alla sanità, all’welfare, all’impresa e di farlo in modo diverso dal passato: può essere la digitalizzazione da un lato e l’onda verde montante nella consapevolezza dell’immaginario collettivo dall’altro rispetto ad un possibile “big crash” devastante, la svolta attesa dal mondo per cambiare registro in modo radicale? Mi pare di capire dal titolo del Suo libro quanta importanza Lei attribuisca alla necessità di far sintesi tra crescita/sviluppo da un lato e tutela ambientale dall’altro. Come entra in questo processo tendenziale, in modo risolutivo, la svolta della digitalizzazione?

L’emergenza climatica è non solo uno dei fattori che contraddistingue la nostra epoca ma è anche ciò che l’industria in particolare si è caricata sulle spalle ormai da anni. Come infatti sostengo nel libro, l’industria è il principale responsabile della crisi ambientale ma è, allo stesso tempo, il principale attore che può ripristinare un equilibrio nel pianeta. Perché possiamo ragionevolmente dire questo? Perché se andiamo a vedere concretamente come stanno le cose, ci rendiamo conto che è proprio il processo di digitalizzazione che comporta una crescente e progressiva dematerializzazione dell’economia. Si intende dire, con questa espressione, che la digitalizzazione sta rendendo l’industria sempre più indipendente dalle materie prime. Come dice Andrew McAfee, capo ricercatore al MIT di Harvard, il progresso tecnologico ha cambiato pelle: computer, internet e tecnologie digitali ci stanno permettendo di dematerializzare produzioni e prodotti consentendoci di consumare sempre di più attingendo sempre di meno. Dematerializzare significa appunto conseguire una riduzione dell’uso di materie prime nell’economia, aumentando la produttività delle risorse naturali per unità di valore. E il digitale è il nuovo motore che rompe col paradigma dell’era industriale della macchina a vapore e dei suoi discendenti capaci di attingere dai combustibili fossili. Come siamo riusciti a ottenere di più con meno? Facciamo qualche esempio: nel 1959 la lattina della Coca Cola pesava 85 gr di alluminio, oggi pesa circa 10 gr; se consideriamo le automobili, i motori a combustione sono mediamente più piccoli del 40% rispetto agli anni ‘80; oggi in uno smartphone vi è il telefono, la calcolatrice, la macchina fotografica, la fotocamera, la radiosveglia, il registratore, il navigatore satellitare, la bussola, il barometro, etc. Tutto questo significa meno metallo, plastica, vetro, silicio rispetto ai dispositivi che sono stati rimpiazzati. Come si vede, le nuove tecnologie e in particolare il digitale, ci stanno rendendo sempre più indipendenti da Madre Terra.

L’attacco al World Trade Center del 2001, il crollo di Lehman Brothers e la crisi dei subprime del 2008, la pandemia Covid-19 è, appunto, il terzo terribile colpo inferto agli assetti che assicuravano una stabilità e un equilibrio sostenibili tra ordine economico mondiale e alleanze politiche. I rapporti reciproci tra Cina, Usa e Russia sono radicalmente mutati. In particolare, si ha l’impressione che l’Europa possa essere indebolita dall’abbandono americano, dalle mire commerciali espansionistiche della Cina e dall’indebolimento della Russia come competitor delle due maggiori potenze. Senza contare le incognite India, Turchia e l’Africa come contenitore di problemi pronti a deflagrare. Quale sarà il destino dell’Europa? Dopo la Brexit sarà sempre più una realtà germano-centrica? In questo quadro in divenire non pensa che la Germania abbia interesse a rafforzare l’U.E. per evitare un autoisolamento? E quale margine di manovra potrà avere il nostro Paese con i dati economici attuali che lo rendono totalmente U.E.–dipendente?

Circa il destino dell’Europa, e quindi dell’Italia, inizierei col ricordare le parole di Angela Merkel del 19 maggio scorso, quando insieme a Emmanuel Macron presentava l’importantissima proposta di Recovery Fund poi approvata dal Consiglio Europeo: lo Stato nazionale non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene. Cosa significano queste parole? I tedeschi, dopo anni di sostegno alle politiche di bilancio, si sono improvvisamente consegnati allo spirito della solidarietà? Da una parte è così, soprattutto Angela Merkel ha capito che o l’Europa fa un passo in questa direzione o rischia l’implosione. Dall’altra, l’aspetto fondamentale di questo cambiamento è che nel cuore produttivo dell’Europa, in Germania appunto, ci si è finalmente resi conto del ritardo che sconta l’industria europea. Due elementi ci danno il quadro della situazione: in primis, solo pochi mesi fa l’Economist scriveva che nel 2010 vi erano 10 società europee tra le prime 40 quotate a livello mondiale, oggi ve ne sono 2 (32mo e 36mo posto); in secondo luogo, il McKinsey Global Institute ci dice che l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi. Credo che questi due elementi insieme ci diano il quadro della situazione in cui si trovi l’industria e l’economia europea, il cui rallentamento negli ultimi 3 anni è stato clamoroso. Da questo punto di vista, la pandemia ha un effetto benefico sull’Europa: ci sta costringendo a ripensare la nostra architettura sociale e, quel che fa sperare, è che il Recovery Plan parte proprio dalle fondamenta: l’industria, che significa lavoro. E se pensiamo, ad esempio, all’articolo 1 della nostra Costituzione – l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro – forse possiamo dire che per la prima volta l’Europa sta avviando un vero processo di integrazione politica.

Ho trovato particolarmente interessante il paragrafo dedicato alle prospettive del cd. back reshoring. Quanto vale in termini di crescita una inversione di tendenza del fenomeno della delocalizzazione, con conseguente rientro dell’industria manifatturiera di cui l’Italia è uno dei più importanti detentori al mondo, rispetto alle future politiche di investimento e agli asset strategici da privilegiare per evitare al ns. Paese (ma anche all’Europa) di rimanere avvinghiati dalla politica commerciale espansiva della Cina, quindi in una situazione di sudditanza anziché di diventarne possibili competitor?

Il back reshoring è un processo che è stato avviato dagli USA e che è stato seguito dai principali paesi manifatturieri del mondo: la Germania, l’Italia, la Gran Bretagna, la Francia, il Giappone… non poteva non arrivare il momento in cui le imprese che così tanto avevano investito altrove, cominciassero a fare i conti con ecosistemi diversi – ambienti, culture, amministrazioni, persone, infrastrutture, mobilità, etc. – avendo evidenza una volta per tutte, superati gli entusiasmi iniziali, quale fosse l’impatto complessivo della delocalizzazione sui fattori della produzione. In sintesi: queste imprese hanno incominciato ad avvertire l’importanza di ecosistemi maturi. Per quanto riguarda le nostre imprese, al di là del fatto che il costo dei trasporti come quello del lavoro sono via via cresciuti, le ragioni sono più profonde: in primis, ha prevalso la volontà di poter tornare a usufruire del marchio made in Italy che differenzia la produzione italiana dal resto del mondo; in secondo luogo, gli ecosistemi sono diversi e diverse sono le garanzie che offrono, a cominciare sulla tutela dei brevetti e della proprietà intellettuale; inoltre, le competenze delle persone, le loro conoscenze, la loro storia, la loro capacità di adattamento alle organizzazioni, la loro flessibilità… sono caratteristiche molto note a quegli investitori che, in particolare, scelgono il nostro Paese. È difficile stimare quanto valore si sia spostato col back reshoring, certamente i Paesi che hanno visto rientrare le loro produzioni ne hanno avuto benefici importanti soprattutto perché si tratta prevalentemente di grandi imprese, con particolare incidenza sui livelli occupazionali. Se, tuttavia, ciò ci dà indicazione del fatto che qualche equilibrio si sta ripristinando, non possiamo dimenticare che la Cina oggi resta il Paese più digitalizzato al mondo. Quindi, Europa e Italia si devono dare una mossa. E non è un caso che, proprio in questi giorni, l’Europa abbia lanciato la piattaforma di cloud computing Gaia-X, proprio per iniziare a colmare il ritardo che ha sul digitale con Cina e USA; è il progetto di una nuova infrastruttura europea per la gestione dei dati che sappiamo essere decisiva nell’era digitale.

L’Europa è di fronte ad un bivio cruciale per i suoi destini: o ritrova lo spirito unitario dei padri fondatori e le intese non solo in tema di politica monetaria ma anche su quella fiscale/tributaria, del mercato del lavoro, della concertazione sulle scelte in tema di sistemi formativi, salute, giustizia, sdoganamento della burocrazia ecc. oppure rischia la frantumazione con micro alleanze interne, ciò che la porterebbe ad essere un debole competitor sui mercati e un boccone ghiotto per le politiche espansive commerciali delle super potenze. In che modo la “Ripartenza verde” può originare proprio dal vecchio continente. Ci sono ragioni culturali e di civiltà o anche motivi di strategia economica che possano valorizzare le nostre potenzialità? La stessa cosa chiedo per il nostro Paese.

È come Lei dice. Non sottovaluterei però l’accordo sul Recovery Fund: mi pare che sia decisivo, come dicevo prima per l’integrazione politica europea. Credo che questa sia un percorso molto complesso, siamo 27 stati membri ma se pensiamo bene a questa coabitazione direi che già di suo l’Unione Europea è un grande esperimento politico e sociale: vi è in particolare un’area mediterranea in cui la spesa pubblica ha storicamente avuto un ruolo preponderante e vi è un’area nord e mitteleuropea, invece, in cui questo ruolo lo hanno avuto le politiche di bilancio; senza considerare l’area balcanica di più recente annessione. Vi sono storie e culture molto differenti, questa coesistenza politica e di pace credo sia di per sé qualcosa di miracoloso. Certo non ha nessun senso un’entità sovranazionale che non genera benefici – come si è avvertito in qualche circostanza post 2011 (quando la crisi economica si è fatta drammaticamente sentire nell’area auro) – ma resto dell’idea che quanto sta avvenendo ora sta imprimendo un cambio di passo all’Unione. Venendo alla ripartenza verde, il Recovery Fund contiene un capitolo importante che va nella direzione dell’innovazione e della transizione ecologica ed energetica. Sono convinto che nessuno spingerà sulle politiche per il cambiamento climatico come l’Europa, tanto che l’Unione Europea potrebbe avviare nel mondo nuove forme di multilateralismo, proprio sul clima e, per esempio, sulla cyber security. Per quanto riguarda il nostro Paese, credo che il nostro destino sia indissolubilmente legato a quello europeo, in particolare a quello tedesco. Le ragioni sono prima di tutto economiche e industriali, ma le stesse carenze della nostra debole classe dirigente saranno compensate a livello più alto, europeo appunto.

Mi ha colpito questo passaggio leggendo il Suo libro: “Oggi l’Europa è leader mondiale nella definizione di politiche globali, ma è fortemente dipendente da un punto di vista tecnologico e ambientale in molti ambiti. Si pensi, in particolare, all’equipment sulle energie rinnovabili”. Come si sta muovendo la nuova Dirigenza U.E. in questo settore, visto che la green economy deve puntare su una forte innovazione progettuale per ridurre l’impatto sull’ambiente dettato dagli odierni stili di vita? Siamo davvero all’inizio del Green New Deal?

Ecco, prima della pandemia l’Unione Europea già stava lavorando moltissimo sul Green New Deal e sulla definizione di un piano industriale europeo per recuperare il ritardo che abbiamo in particolare con USA e Cina. Non se ne sono accorti in molti, ma più o meno due settimane fa, Christine Lagarde in un’intervista al Financial Times si è detta “pronta a esplorare ogni strada per sostenere il rilancio dell’industria europea anche nell’ottica di fronteggiare il cambiamento climatico”. In precedenza, già la Presidente Von Der Leyen aveva manifestato tutta la sua determinazione per il Green New Deal – “per l’Europa è come l’uomo sulla luna” – che solo l’emergenza sanitaria ha reso meno in primo piano nei lavori della Commissione. È quindi un ottimo segnale che anche un’istituzione come la BCE trasmetta tutta la sua convinzione in tal senso. Lo potremmo definire, dopo quello di Mario Draghi, il “whatever it takes” di Christine Lagarde. In buona sostanza, l’Europa col Green New Deal sta rendendo centrale la questione industriale e della sua innovazione. Credo che l’elettrificazione della mobilità diventerà la sfida simbolica per l’Unione Europea, pensiamo a due importanti player come Volkswagen e PSA-FCA: c’è il cuore della manifattura europea, tedesca, italiana e francese. Certo, l’Europa – come da sua domanda – è avanti sul piano regolatorio ma indietro su quello reale. Sulle rinnovabili e sugli obiettivi di carbon neutrality, per esempio, sono molto avanti gli stati del nord Europa e meno gli altri, sono indietro i Paesi dell’est, in particolare la Polonia; l’Italia è nelle medie europee e in particolare sull’economia circolare sta dimostrando molta capacità e dinamicità. Purtroppo, però, in questo quadro in cui l’UE da segnali importanti non solo per la sua industria ma anche per la sua integrazione, il nostro Paese pare reagire in modo molto parziale alla situazione. Non bastano le misure assistenziali, è fondamentale pensare anche alla ripresa, le aziende hanno bisogno di strumenti per progettare il futuro. Da questo punto di vista, il decreto rilancio è una delusione. Vi sono sì i bonus per edilizia e auto ma non vi è praticamente nulla per l’innovazione d’impresa. Deve ripartire il piano industria 4.0 in modo poderoso. Imprese e industrie vanno sempre più portate sull’orizzonte digitale e sulla transizione ecologico-energetica. Per l’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, è occasione fondamentale che non possiamo mancare: nel giro di tre anni, rischiamo di uscire dal gruppo dei Paesi avanzati.

A proposito di BCE, in occasione del conferimento della laurea honoris causa presso la Cattolica di Milano il Presidente uscente Mario Draghi ha indicato alcuni requisiti che un decisore politico ed economico dovrebbe possedere: la conoscenza, il coraggio e l’umiltà. Ciò chiama in causa competenze oggettive ma anche doti e disponibilità soggettive: quanto manca la Sua presenza sulla scena Europea, quale eredità ci ha lasciato e perché mai sembra che invece la politica italiana – litigiosa e incerta, divisa su tutto, persino all’interno della stessa attuale coalizione di Governo – possa all’atto pratico eludere le indicazioni di metodo suggerite da Mario Draghi, presentandosi agli appuntamenti europei con una immagine e una potenzialità negoziale indebolite?

Mario Draghi è stato un grande statista e non solo un dirigente della Banca centrale. Il suo quantitative easing ha conseguenze politiche potenti, lo vediamo nella sentenza della Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe che si è pronunciata proprio contro la legittimità del QE. Ma il dado è tratto e la risposta della Corte Europea è dirimente. Del resto, uno dei principi che animano il diritto è quello, anche nell’errore, della reiterazione del fatto. Siamo quindi in presenza di qualcosa di irreversibile: Mario Draghi con la sua visione economica e politica ha plasmato l’Unione Europea rendendo la BCE simile alla Federal Reserve, cosa che non era inizialmente prevista. Da qui la contestazione della Consulta tedesca. Draghi ne era consapevole e ancora oggi le sue parole suonano come profetiche: “ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro” è una frase che sarà contenuta nei libri di storia. Draghi ha gettato le fondamenta per quella che è l’Unione europea dopo il crollo di Lehman Brothers, avvenimento che ha fatto barcollare il mondo. Detto questo, Draghi ci manca molto. Ma resto dell’idea che è una presenza influente anche oggi, persino Di Maio ha chiesto di essere ricevuto da lui. Mi auguro, ma sono convinto che se lo augurano molti italiani, che nel 2022 Draghi sarà l’uomo che il Parlamento manderà al Quirinale. Sarà allora che probabilmente assisteremo ad un nuovo corso politico.

L’avvento della digitalizzazione, dematerializzando produzioni e prodotti, consente la possibilità di un minore impatto ambientale: ci sono segnali forti sullo stato malconcio del pianeta, a cominciare dal citato Rapporto ONU sulla possibile estinzione della vita sul pianeta, la prima per mano dell’uomo.Nel Suo libro, dunque, ripartenza verde e digitalizzazione sono due percorsi paralleli e complementari: mi pare che Lei evidenzi la drammatica urgenza di una inversione di rotta rispetto al consumo del pianeta. Ce ne vuole dare conto?

Si certo, è così. La lotta al cambiamento climatico è anche la lotta ad un minor consumo di risorse e di materie prime. Si discute tanto di crisi climatica e riscaldamento globale ma la discussione, quella seria, è sulla possibile origine antropica, non sul fenomeno in sé che è fatto acclarato: non a caso si stanno sciogliendo i ghiacciai. E come dicevo, e come richiama Lei nella domanda, lo sviluppo sostenibile è conseguenza della digitalizzazione dell’industria. Soprattutto in merito ai problemi dell’inquinamento, del riscaldamento globale e della crisi climatica, ad oggi ha prevalso l’idea – ispirata da quello che possiamo definire ambientalismo ideologico – che la soluzione fosse deindustrializzare, chiudere le industrie. Per qualcuno, ambiente e salute sarebbero agli antipodi rispetto a ciò che è industria. Le cose naturalmente, e fortunatamente, non stanno in questi termini. Perché? Perché il digitale, il nuovo motore, ha introdotto un nuovo modello produttivo, oltretutto soggetto a evoluzione potente e velocissima, basato sul minor consumo di risorse. Sta a noi proseguire su questa strada, sfruttando anche la combinazione tra tecnologia e fonti energetiche alternative.

Sulla digitalizzazione come processo irreversibile a matrice scientifica (quindi inteso come evoluzione della tecnica in funzione di una sostenibilità antropologica e ambientale) ho alcune riserve che Le chiedo di confutare.
La prima riguarda il target di utenza coinvolta: vedo una sorta di selezione naturale che espunge gli anziani dall’uso delle tecnologie complesse e quindi dalle relazioni umane, condannandoli alla solitudine.
La seconda riguarda la sua applicazione in campo educativo, e scolastico e della formazione: l’esperienza recente della didattica a distanza durante il lockdown ha sortito esiti e risultati inferiori alle aspettative. C’è stato un grande movimento di opinione tra famiglie e docenti che ha invocato il ritorno alla didattica in presenza, centrata sulle relazioni umane.
La terza obiezione è di carattere generale: vedo nel processo di digitalizzazione un progressivo e pervasivo passaggio di dati, informazioni, conoscenze dall’interno all’esterno della mente umana. Mi domando se questa cultura archiviata in terminali elettronici possa essere utilizzata e custodita e quanto il pensiero pensante, l’intuizione, la liberalità della divergenza possano correre il rischio di soccombere di fronte al pensiero pensato conservato nelle scatole elettroniche. In Finlandia è stato abolito l’uso del corsivo nell’apprendimento della letto-scrittura. Si impara a leggere e a scrivere con il tablet. Non la considera una grave limitazione alle libertà individuali e un pericolo di creare una società anaffettiva?

Quelli che Lei richiama sono tutti problemi seri. Ma le faccio una domanda: non crede che con l’affermazione della macchina a vapore si ponesse, in un certo senso, un problema simile di trasformazione sociale? Eppure, quello – come dice Andrew McAfee – è stato il “primo grande balzo in avanti della storia dell’umanità”: pensiamo infatti allo sviluppo economico, demografico e sociale che ne è conseguito. Bene, oggi siamo dinnanzi al secondo balzo. Perché dovremmo temere? L’industria è stata e continua a essere il sistema tecnico più sofisticato che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo, quello fisico come quello intellettuale. È il più grande prodotto della scienza moderna. Oggi, come Lei dice, siamo nel cuore della rivoluzione digitale, che è la rivoluzione dell’industria, quella che chiamiamo Industry 4.0. Questo è diventato con gli anni il mio principale oggetto di studio che al Prof. Giorello interessava molto perché è prova evidente del fatto che non è l’ideologia a cambiare il mondo ma la tecnica, perché questa è il vero contenitore in cui ricade la forma più alta di conoscenza: la tecnologia e le macchine non sono infatti nient’altro che idee della scienza in marcia diceva Giorello. Scienza e tecnica si fanno luce a vicenda, il loro rapporto è circolare, vive di continui riflessi. E così è sempre stato, soprattutto nell’antichità, quando ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, diceva Giorello, non abbiamo alcun bisogno. Queste sono le ragioni per cui dovremmo allontanarci da atteggiamenti ostativi all’innovazione, dovremmo seriamente caricarci sulle spalle il processo di trasformazione. Questa è la nostra sfida, gestire la trasformazione. Che significa, lavoro, scuola, città, anziani… il digitale è pervasivo, ma siamo solo all’inizio: col tempo troveremo i giusti equilibri.

Sostenibilità, energie rinnovabili, economia circolare: sono tre elementi costitutivi per la postulata ripartenza verde. Tuttavia, dobbiamo fare i conti anche con noi stessi: siamo 7,7 miliardi di esseri umani. Il biologo Edward Wilson ha affermato che oltre i 6 miliardi scatta un semaforo rosso. Oltre ci sono il rischio di bioestinzione graduale, il riscaldamento climatico, lo scioglimento dei ghiacciai, lo stesso Covid-19 generato da una umanità impreparata che violenta la natura e distrugge il pianeta, come ha affermato il Prof Benini. A fine secolo saremo circa 11 miliardi. Ce la faremo? Ci sarà posto per tutti? Il Suo libro apre a questa speranza ma mi pare che anche a Lei non sfugga l’urgenza di cambiare molte cose della nostra vita, subito.

Questi rischi non vanno minimizzati ma allo stesso tempo non condivido paure e teorie dell’apocalisse ambientale e climatica alimentate anche da questi studi demografici. Giorello mi ha insegnato a rifuggire dagli schemi preordinati che in qualche modo vogliono sciogliere l’enigma della storia, come per esempio voleva Marx. Sono invece gli uomini con le loro scoperte scientifiche che possono di continuo cambiarne l’apparente direzione. E una vera e propria direzione della storia in sé e per sé non esiste, il suo corso è imprevedibile perché, in particolare, è imprevedibile l’evoluzione scientifica e tecnologica. Il digitale è il nostro alleato nella sfida ambientale e siamo solo all’inizio delle potenti innovazioni combinatorie. Vedremo cosa succederà, tra soli 10 anni potremmo accorgerci di vivere in un mondo completamente diverso da quello attuale. E ho la sensazione che sarà un mondo migliore.