Giuseppe Sabella: “Occorre dare una prospettiva di innovazione al nostro paese”.

Giuseppe Sabella è ricercatore sociale e direttore di Think-industry 4.0. Collabora e ha collaborato con diverse testate - Il Sole 24Ore, Rai News, Il Sussidiario e Start Magazine - ed è commentatore economico per il TGcom24 di Mediaset. È inoltre autore di diversi saggi sui temi dell'industria e del lavoro tra cui Società aperta e lavoro (con Giulio Giorello, Cantagalli 2019), L'altra storia del sindacato (con Giuliano Cazzola, Rubbettino 2018), Fabbrica intelligente (introduzione di Carlo Stagnaro, Cantagalli 2018), Da Torino a Roma (introduzione di Giorgio Squinzi, Guerini e Associati 2015).

Direttore, l’emergenza del Coronavirus – considerata prevedibilmente la non breve durata della pandemia – sta generando effetti devastanti ai quali non eravamo preparati. Oltre al flagello sanitario l’economia mondiale sta subendo profondi scossoni che incidono in una fase tendenzialmente recessiva in atto. Quali previsioni si possono ragionevolmente dedurre?

La nuova fase della globalizzazione che è alle porte vedrà sempre più tre blocchi competere tra di loro: l’Europa e le due superpotenze USA e Cina. Nell’immediato direi che possiamo fidarci di quelle che sono le previsione del FMI che prevedono una contrazione dell’economia per tutte e tre le macro aree: Europa -7,5% PIL, USA -5,9%, Cina -4,8%. Per quanto riguarda l’Europa, la situazione è più o meno la stessa per tutti gli stati membri: Italia -9,1%, Germania-7%, Francia -7,2%, Spagna -8%. La recessione quindi non risparmierà nessuna area, vedremo però cosa sarà dal 2021, le sorprese potrebbero non mancare perché le variabili possono essere diverse. Intanto, vedremo quale sarà la reazione del mondo nei confronti della Cina, non solo in termini di responsabilità relativi alla pandemia e alla diffusione del virus; credo che la Cina oggi stia mostrando tutti i suoi limiti strutturali, e ciò potrebbe avere pesanti ricadute. A ciò tuttavia si aggiungono altri fattori: come i singoli blocchi riusciranno a contenere l’emergenza sanitaria – da cui non possiamo ritenerci fuori – e chi per primo troverà un vaccino. Ciò avrà anche effetti geopolitici perché chi per primo potrà dare il vaccino ad altri Paesi otterrà in cambio quella riconoscenza che rinnoverà o consoliderà determinate alleanze in una fase di grande cambiamento a livello planetario.

Gli USA e il Regno Unito (dopo la Brexit) hanno inizialmente ridimensionato la portata del fenomeno mentre adesso sono attraversati da un dilagante contagio. Si ha l’impressione – nel mondo occidentale ma con interrogativi ben più gravidi di ulteriorità e sviluppi negativi anche nei Paesi di cui non si hanno dati di monitoraggio aggiornati – che ogni Stato tenda a circoscrivere la soluzione della crisi pandemica attraverso una prospettiva “interna” della sua gestione. Come valuta l’attuale diaspora nell’U.E. sull’utilizzo di fondi a sostegno delle necessità degli Stati membri e la politica della BCE dopo la gestione di Mario Draghi? Come mai l’Europa non ha nella fattispecie un coordinamento sanitario e non tende ad una politica fiscale comune?

La politica monetaria espansiva di Mario Draghi, che è stata la salvezza dell’euro e dell’Europa negli anni più duri della crisi, essendo qualcosa di non previsto a livello regolatorio ha creato una inevitabile discussione. Si vedano in questo senso, da una parte il contenzioso che oggi culmina nella sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe, dall’altra gli stessi tentennamenti di Christine Lagarde non appena insediatasi alla guida della BCE proprio al posto di Draghi. Qual è il punto tuttavia che emerge ad oggi da questa situazione? Che la politica di Draghi, reiteratasi negli anni, pur non essendo statutariamente prevista è ormai diventata la prassi in quell’Europa sempre un po’ più sovrana e sempre più in cerca di integrazione. E sarà difficile tornare indietro da questo punto di vista. Al limite, sarà rivista la portata del quantitative easing. Ma ormai, il sostegno della BCE al debito degli stati membri è un fatto irreversibile. Vi è meno capacità, invece, di dare risposte in termini di politica sanitaria e fiscale. Del resto, mentre la crisi post 2008 ci ha permesso di sperimentare una politica monetaria, da un punto di vista sanitario la pandemia ci ha trovato del tutto impreparati a livello europeo. La burocrazia, quale in gran parte è l’Europa, si rivela deboli dinnanzi a fenomeni di questa portata. Se poi pensiamo all’OMS, questa ha mostrato non solo poca lucidità ma anche molta indulgenza (troppa) nei confronti della Cina che a questo punto ci interroga sulla sua utilità. Sulle politiche fiscali, invece, vorrei dire che è ora che l’Europa tiri fuori le unghie: non è più ammissibile che Paesi interni all’Unione, come Olanda e Irlanda, siano soggetti attivi di dumping fiscale e ostativi – mi riferisco in particolare all’Olanda – di un processo di integrazione, come è emerso chiaramente nel corso di questi due mesi.

Venerdì tuttavia si è trovato l’accordo sul MES. Come le sembra questa intesa?

Buona, perché sono risorse che ci torneranno molto utili. Parliamo di una richiesta possibile fino al 2% del PIL, nel nostro caso si tratta quindi di circa 36 miliardi €. L’intesa vedrebbe dunque un’interpretazione piuttosto ampia delle spese sanitarie che vengono definite nel loro complesso e che non riguarderanno soltanto respiratori o terapie intensive. Per il resto, nessuna condizionalità se non quella di dover restituire il denaro – e ci mancherebbe… – in 10 anni e a tassi molto vantaggiosi (0,1%). In Italia si è parlato in modo eccessivo di MES e soprattutto in maniera fuorviante. Piuttosto, vediamo cosa succede sul versante Recovery fund perché è lì che si gioca la partita vera della ricostruzione europea e che ci può permettere ragionamenti per una crescita necessaria, se non vogliamo restare schiacciati tra USA e Cina. Se tuttavia vogliamo dare uno slancio di competitività alla nostra economia, il Recovery Fund deve servire, anche, per un piano di innovazione della nostra industria, italiana ed europea si intende. Il cuore dell’industria europea è naturalmente la manifattura tedesca, con cui l’Italia è molto integrata. Non a caso, negli ultimi due anni, rallentando la Germania abbiamo rallentato anche noi, per quanto la crescita di per sé fosse già debole.

A proposito di Cina, nel Memorandum sottoscritto con l’Italia a marzo del 2019, il 27° punto prevede che i bacini portuali di Genova e Trieste diventeranno i terminali europei della via della seta. Considerata la forza espansiva commerciale dirompente della Cina, la presa di distanza dell’UE rispetto a tale accordo esclusivamente italo-cinese e la debolezza strutturale del sistema-Italia, non teme che il nostro Paese diventi un ghiotto boccone per i mercati asiatici? Di fatto a mio parere si è introdotto un ulteriore elemento di criticità che sovraespone l’Italia alle scalate da oltre oceano, fatto che si aggiunge all’essere terra di frontiera per i flussi immigratori dall’Africa. Ci sarà (e perdurerà) una sovraesposizione senza tutele a livello Comunitario?

Naturalmente il rischio che lei richiama esiste. Soprattutto perché vi è una parte dell’attuale classe dirigente che alla Cina è molto legata. E non sempre è consapevole di cosa significa scambiare: non sempre si fanno affari scambiando, vi sono elementi di strategicità che vanno valutati di volta in volta e non è mai semplice. Ma per fare queste valutazioni ci vogliono le giuste competenze. Non mi è chiaro, ad esempio, quale sia stata la nostra convenienza nel Memorandum del 2019 che, oltretutto, ha creato qualche tensione anche con gli USA che non hanno mai digerito questo nostro impegno con la Cina. Va detto però che oggi, nella fase post covid che si sta aprendo, mi sembra tutto in gioco. La stessa Cina, nel futuro prossimo, avrà la forza di spingere la via della Seta come ha fatto prima della pandemia? Credo che le elezioni americane ci daranno delle risposte. In ogni caso, al di là di Trump o Biden, vedo gli USA meno isolazionisti e più propensi a riavvicinarsi all’Italia (e all’Europa). In questo senso, credo che se in Italia ci sarà qualche cambiamento sostanziale a livello politico, lo avremo dopo le elezioni americane, quando sarà chiaro chi guiderà l’America nel futuro prossimo. La stessa Africa è una grande variabile: per il momento la diffusione del virus non pare aver causato grandi emergenze. Poi vi è il fattore petrolio: i veri Paesi dove la crisi petrolifera rischia di essere pericolosa sono soprattutto Iran, Iraq e Libia. È chiaro che molte delle possibili migrazioni dipenderanno dalla tenuta delle economie di questi Paesi. L’Europa deve iniziare seriamente a pensare all’Africa, alla fine è il suo sud. Non vedo perché gli investimenti in Africa li fanno i cinesi e non li può fare l’Europa.

Dell’ILVA di Taranto non se ne parla da tempo ma il problema del suo trasferimento è sempre sul tappeto, l’Alitalia è in vendita da tempo: l’elenco dei gioielli di famiglia e delle aziende che rischiano di finire in mani straniere è lungo e variegato. L’Italia è un Paese in svendita? Nel frattempo il piano delle grandi opere subisce rallentamenti: siamo vittime di una debolezza sistemica, del nostro debito o della burocrazia che rallenta e della demagogia che blocca i processi espansivi?

Di Ilva si tornerà a parlare molto presto perché entro la fine di maggio è previsto che azienda governo e sindacato si accordino rispetto al nuovo piano industriale. E non credo che l’emergenza covid, da questo punto di vista, consentirà particolari proroghe. Non dimentichiamo che, in determinate condizioni, ArcelorMittal a fine anno potrà valutare il suo disimpegno versando una penale di 500 milioni €. È tutto in gioco, se il governo manterrà i suoi investimenti – forno elettrico e produzione a gas – Mittal potrebbe confermare il suo impegno nella siderurgia italiana. Nel frattempo, la pandemia – riducendo al minimo la produzione – ha fermato l’altoforno 2. Dove non è arrivata la magistratura, è arrivato il covid. Per quanto riguarda Alitalia, oggi paghiamo una serie di errori che non solo ci stanno costando un occhio della testa – parliamo di 10 miliardi di euro – ma che ci consegnano la situazione di sempre, ovvero quella di una compagnia che non ha una prospettiva perché non è in grado di dotarsi di una strategia con cui competere nel mercato globale. Ma, ancora una volta, per progettare riorganizzazioni, piani industriali, strategie competitive e quant’altro, servono quelle competenze che continuiamo ad ignorare. L’attuale commissario di Alitalia, Leogrande, è un avvocato, non è un professionista con competenze legate al business dei trasporti e la sua esperienza nel settore (con la compagnia low cost Blu Panorama) è legata ad una ristrutturazione e alla conseguente vendita. La sua nomina è indice del fatto che non si è compreso il problema: ad Alitalia va consegnato un piano industriale che la proietti nel mondo. In sintesi, il caso Alitalia ci dice che dalla demagogia e dalla burocrazia e siamo schiacciati. E dalla burocrazia nasce il debito, non la crescita. Dobbiamo cambiare passo, i prossimi 3 anni saranno decisivi, non solo per l’Europa, ma anche per il futuro del nostro Paese.

A proposito di Europa, quanto siamo lontani dallo spirito dei padri fondatori e come i conflitti sugli interessi nazionali siano di ostacolo ad una politica comunitaria coesa e condivisa. Un’Europa debole e divisa come può affrontare i temi del lavoro, della giustizia sociale, delle politiche fiscali ecc?

La forte contrazione economica si unisce a fattori strutturali che rendono la fase attuale un’epoca carica di complessità: mi riferisco certamente alle potentissime trasformazione del lavoro in atto che si aggiungono non solo ai fenomeni migratori ma anche alla crisi ambientale, di cui la stessa trasformazione dell’industria – intesa come modello produttivo – deve tenere conto. Ad oggi, come lei rimarca, le divisioni in Europa hanno prevalso. Ma vi è una novità: vi è stato in questi anni un importante recupero delle produzioni in particolare dalla Cina – cosa che oltre all’Europa ha riguardato anche gli Stati Uniti – e oggi le grandi catene del valore si stanno sempre più riorganizzando. Vi è molto valore, in sintesi, che è tornato e che sta rientrando a casa. La competizione sempre più regionale e i tre blocchi – Europa, USA e Cina – si stanno organizzando per piattaforme industriali produttive. Ecco, o su questo punto l’Europa trova coesione o la partita diventa durissima. Siccome, come dicevo prima, il cuore della piattaforma industriale europea resta la Germania, voglio essere ottimista: i tedeschi più di tutti sono consapevoli del problema, secondo me anche l’accordo sul Recovery Plan – che concretamente capiremo più avanti come si articolerà – resta in questo senso un segnale positivo.

Una ricerca dell’OCSE del giugno 2019 aveva evidenziato dati già noti, attraverso i Rapporti ISTAT e CENSIS, in ordine alla fuga dei cervelli e delle alte professioni, compensate solo dall’ingresso di manodopera meno qualificata. Il sistema scolastico italiano è ancora uno dei migliori al mondo ma il problema consiste nel fatto che si esportano eccellenze in termini di formazione acquisita nelle nostre scuole e Università poiché il problema principale consiste nella scarsa ricettività del mercato del lavoro. Fuggono i giovani in cerca di occupazioni più stabili e remunerate, fuggono i pensionati in cerca di una fiscalità più favorevole. Perché l’Italia non riesce a frenare questi flussi di exit?

Perché da una parte il Paese continua a innovarsi poco, sia in termini di sistema economico che di infrastruttura Paese: basta vedere gli indicatori della produttività, tasto dolente a livello europeo, reso ancor più grave dal fatto che in Europa restiamo il secondo Paese manifatturiero. Dall’altra, alla lunga ciò vuol dire più debito e meno ricchezza. Ecco perché alla fine non solo fuggono i giovani che, più che un lavoro, vanno a cercare occasioni vere, quelle possibilità di crescita professionale in ragione di ciò per cui si sono formati e che il Paese fatica ad offrire (proprio perché non si innova); fuggono anche i pensionati, perché un sistema a crescita asfittica, come lo è l’Italia da qualche anno, finisce col fisco per pesare anche sui redditi. Bisogna lanciare un programma di innovazione per il Paese.

In tema di redditi e fiscalità l’Italia sembra essere diventato il Paese dei bonus senza controllo, dagli 80 euro di Renzi, ai bonus per i giovani, a quello per gli insegnanti, al reddito di cittadinanza: troppe dazioni senza un oculato accertamento del loro utilizzo. In particolare il reddito di cittadinanza evidenzia più di un rilievo critico: a cominciare da ciò che stanno facendo i cosiddetti “navigator”, da come sono stati reclutati, dagli uffici territoriali del lavoro che non sono cambiati. Dobbiamo rassegnarci ad una politica delle mance (in chiave prevalentemente elettorale) visto che non esiste nel ns. Paese un oculato e organizzato sistema di controllo istituzionale di tipo tecnico?

Purtroppo il sistema con cui la politica ha cercato il consenso in questi ultimi anni è proprio questo. Non vi è traccia, nemmeno per il rotto della cuffia, di un piano per il lavoro. Senza un piano di questo genere siamo condannati al declino. Piano per il lavoro vuol dire mettere al centro dell’agenda politica un disegno per cui canalizziamo delle risorse su quei segmenti virtuosi dell’economia in grado di restituirci un ritorno. In buona sostanza, abbiamo un nucleo di imprese italiane che competono nel mondo attraverso prodotti di assoluto valore che il mercato mondiale riconosce come eccellenti: mi riferisco alla meccanica strumentale, al tessile, pellami, abbigliamento, calzature, computer, prodotti di elettronica, ottica, apparecchiature elettriche prodotti in legno etc. Questo è il made in Italy. Se qui canalizziamo risorse attraverso progetti di sviluppo d’impresa – lasciando che sia l’impresa a farli naturalmente e non sostituendoci agli imprenditori – possiamo avere dei ritorni in termini di occupazione. E, soprattutto, occupazione di qualità trattandosi di aziende che vivono all’insegna dell’innovazione.

Si parla spesso di prima, seconda, terza e finanche quarta Repubblica. Sono dicerie da salotto, finzioni politiche o disquisizioni retoriche? Se un cambiamento c’è stato esso ha acuito il gap tra Paese legale e Paese reale, senza la mediazione dei corpi intermedi e con la trasformazione dei partiti ideologici in partiti a gestione personale-padronale?

La progressiva perdita dei partiti tradizionali, delle loro scuole e della capacità intermediante che questi avevano è il file rouge di questi ultimi 25 anni. Va tuttavia detto che questo cambiamento si è affermato in tutto il mondo, al di là del fatto che USA, UK, Francia e Germania continuano ad essere in grado di esprimere validi gruppi dirigenti, cosa che drammaticamente noi non riusciamo più a fare. Sono dell’idea però che questo vaso di Pandora stia per saltare, ci vorrà un po’ di tempo ancora ma questa situazione non può reggere a lungo.

Nota dei segni di un cambiamento positivo? Qualcuno che sappia pensare un modello di società sostenibile, un progetto di sviluppo del Paese, un incremento del mercato del lavoro, una sburocratizzazione della P.A. oltre la velleitaria digitalizzazione della società, dei flussi relazionali e comunicativi?

No, se il vaso di Pandora esplode, non sarà per merito nostro. Siamo troppo deboli per poter fare sistema di questi modelli, pur essendovi chi in Italia ha le idee molto chiare. La nostra unica speranza, in questo momento, può venire soltanto oltralpe. Se USA e Europa innescano una nuova carica per l’economia, auguriamoci quantomeno di essere capaci di salire sul treno. Ma se ciò avvenisse, gli interessi dell’economia saranno più forti di questi gruppi dirigenti inadeguati. La politica italiana oggi è troppo debole e non riesce ad esprimere progettualità.

L’Istat ha definito l’Italia il paese dei vecchi e delle culle vuote. In una Ricerca della Sapienza di Roma (Prof Sgritta e Raitano) emerge il problema della sostenibilità generazionale. Il Prof Ricolfi nel suo recente fortunato libro parla di “società signorile di massa”, nella quale il reddito accumulato dai padri e dai nonni mantiene una maggioranza di nullafacenti che vivono (magari loro malgrado) di rendita. Quanto durerà? Che cosa serve al nostro Paese – oltre la contingenza drammatica del momento per ricominciare a crescere?

Il prof. Ricolfi, nelle sue interviste più recenti, sta parlando di “società parassita di massa” definendola un’evoluzione della “società signorile di massa”, in ragione delle forme di assistenzialismo e clientelismo sempre più spinte e accelerate dalla crisi attuale. Il problema tuttavia, come ben evidenzia il prof. Ricolfi, resta sistemico: spesso in questa rete di assistenzialismo parassitario finisce anche chi, suo malgrado, non lo vorrebbe. E perché succede questo? Perché l’Italia, di fondo, resta un paese che si è innovato poco, che crea poche opportunità. Certo, vi è chi le va a cercare all’estero. Ma non è la soluzione. Se vi è una via d’uscita è questa: dare una prospettiva di innovazione al nostro Paese. Ma non resta più molto tempo per farlo.