Pare che l’esercizio della democrazia consista oggi nel disporsi di buon grado intorno a un tavolo.

Si “aprono” tavoli di concertazione, di confronto, di trattativa, di riflessione, di mediazione, di lavoro, persino di decisione.

Il capo degli ultimi due governi, per scelta o necessità, ne ha convocato molti di “verifica”, salvo che i verificatori non si siano alla fine nemmeno presentati.

Siamo ora in presenza del “tavolo dei tavoli”, la madre di tutte le ostensioni, la parata delle star (quelle che aderiscono), dove ciascuno darà il meglio di se’: arrivano gli “Stati generali”.

Siamo all’apoteosi dell’apparenza e all’oblio della Storia.

Ma perfettamente inseriti nella logica oggi prevalente: un debordante uso della parola che produrrà l’enciclopedia del nulla, una monografia dell’autoreferenzialità, un gigantesco tomo i cui contenuti saranno obsoleti il giorno dopo.

Ma la politica dov’è? Perché il Parlamento delega esperti esterni? Eppure l’etimologia del suo nome rende ragione della sua funzione: in quella sede dovrebbe progettarsi il futuro del Paese.

Siamo forse all’anticamera di una Repubblica del Presidente (del Consiglio)?

Un vezzo – quello di convocare tavoli – dunque assai in voga nella democrazia delle inconcludenze.

Già lo spoil system ci aveva abituati all’uso disinvolto delle scrivanie;  uno, piombato da chissà dove ma certamente mandato lì con tanto di “manuale cencelli”, si sistemava in un ufficio e cominciava il suo lavoro: “adesso mi occuperò di questo progetto”.

Ma l’icona del tavolo risulta adesso di gran lunga prevalente.

E’ la regola non scritta del confronto che ci impone questa consuetudine e non possiamo certo negare che si tratti, all’origine, di un lodevole proposito.

Convocare “tavoli”, far ricorso ai “tavoli” sembra rispondere ad una logica di metodo ma coincide anche con una più ampia deriva sociale.

Il tavolo è l’icona della collegialità, della condivisione, della trasparenza.

Ma è anche il surrogato del presenzialismo autoreferenziale, il ring dei conflitti di interesse, il luogo delle sovrapposizioni e delle intersezioni, il mix del bla-bla-bla ostentato e molto spesso inconcludente.

Una specie di tributo sociale che si paga sull’altare della demagogia e del populismo, l’occupazione di uno spazio per significare una presenza, il ritualismo che celebra il limbo dell’incerto e dell’indeterminato. 

Oggi tutto dev’essere socializzato, perciò più è alto il numero dei convenuti e più il tavolo acquista rilevanza, in questo va ammesso che la sinistra del confronto, delle convergenze e del campo progressista batte la destra decisionista dieci a zero.

I tavoli si compongono e si scompongono, si allungano e si accorciano, ci sono infatti tavolate e sottotavoli, nuovi commensali e situazioni sempre fluide, in divenire.

Non è che il menu sia poi così invitante e c’è in genere chi prende il sopravvento: gli affabulatori professionisti la fanno quasi sempre da padrone e le ragioni sono spesso di chi sa alzare di più la voce. 

Nelle intersezioni delle presenze, delle deleghe e delle appartenenze uno deve avere l’avvertenza di mantenere la propria identità partecipando a tavoli diversi, per non contraddire almeno se stesso.

Negli ultimi due anni ci sono state molte occasioni per vertiginose cadute di coerenza e di stile, non è da tutti ribaltare le proprie decisioni ma la fascinazione dell’apertura di nuovi tavoli che esprimano sensibilità più avanzate esercita un magico potere.

Vedo molta sofferenza intorno ai tavoli: è come celebrare un rito, uno si siede e comincia l’abbuffata delle parole, l’ostensione dell’eloquio, la rivendicazione delle primazie.

E’ tutto uno sciorinare di espressioni ad effetto: sinergie, interrelazioni, convergenze, diagrammi di flusso, co-costruzioni, maglie larghe, reti, stimoli. 

Soprattutto molti stimoli con prevedibili effetti collaterali.

In genere non si conclude niente: vedremo, faremo, valuteremo, ne stiamo parlando, ci sono interessanti prospettive per il futuro. 

L’autoelogio dell’arte del procrastinamento e del rinvio  è un abile giochino di simulazione e dissimulazione.

La società chiede decisioni sollecite e assunzioni di responsabilità precise, autorevolezza e competenza.

Responsabilità e competenza sono anzi i due cardini imprescindibili del corretto funzionamento degli apparati, i due pilastri che sorreggono ogni istituzione preposta ad erogare un qualunque servizio, a prendere finalmente una decisione.

Nel creare tavoli su tavoli la società esprime un nichilismo di fondo che è lo specchio di un pensiero debole, perché questa politica non sa, alla fin fine e dopo tante parole, esprimere uno straccio di progetto condiviso.