Governare le opinioni

Il “centro” politico non è più l’opinione “moderata” collocabile fra destra e sinistra

Articolo già apparso sulla rivista “Il Mulino” a firma di Rosa Fioravante

Come spesso accade, per carpire le dinamiche strutturali dei cambiamenti sociali è utile partire da un paradosso: come mai nel Regno Unito, culla del thatcherismo e del blairismo, esiste oggi il partito della famiglia socialista più forte d’Europa (Brexit o non Brexit) e in Italia, una volta terra del Partito comunista più grande d’Occidente, la sinistra in senso ampio sembra non avere idea di come ricostruirsi in modo efficace? Una possibile risposta, in un’intervista di pochi mesi fa, può essere quella fornita da John Lansman: “Curioso che in tutta Europa si parli di Gramsci e in Italia no”.

In effetti, per guadagnare e mantenere il consenso democratico nell’epoca presente della spoliticizzazione, della volatilità elettorale e dell’alto tasso di disillusione e sfiducia che caratterizzano una parte consistente dei giovani e del ceto medio impoverito (non povero), la battaglia di idee sui programmi e l’organizzazione “pesante” del partito sono diventate più determinanti per la dialettica politica di quanto non fossero nel mondo ordinato e dalla più facile collocazione politico-identitaria che è stato quello novecentesco. Dopo la fine della realtà della fabbrica fordista, la parcellizzazione totale del lavoro e il dispiegarsi dell’epoca dell’atomismo universale che hanno determinato anche la fine delle organizzazioni partitiche e sindacali di massa, che a quel modello di produzione corrispondevano, le identità politiche sono diventate cantieri in evoluzione permanente, mai acquisite una volta per tutte, almeno per quella che sta diventando la porzione di elettorato più consistente.

Il “centro” politico non è più l’opinione “moderata” collocabile fra destra e sinistra da inseguire, ma si presenta oggi come un’arena contendibile e soggetta a radicalizzazione. Inoltre, al suo interno i cittadini si orientano con meccanismi e mezzi diversi dal passato e per lo più non si definiscono utilizzando l’asse destra/sinistra. All’interno di questo cambio di paradigma dal voto “identitario” a quello “per convincimento”, sono meglio attrezzati ad affrontare l’arena della spoliticizzazione quei soggetti che hanno importanti competenze in campagne e mobilitazioni tematiche e un’organizzazione stabile e capillare facilmente riconoscibile da coloro che sono più disattenti alle dinamiche politico-partitiche.

La convinzione della contendibilità del consenso grazie a un movimento di contro-egemonia e di influenza culturale antecedente e più ampio della sola consultazione elettorale è la base del progetto dei movimenti che nel mondo occidentale stanno, non con poche difficoltà, costituendo un’alternativa di qualche significato elettorale al centro-destra e al centro-sinistra tradizionali. Diventare “mainstream” è un’operazione che consiste infatti nella sostituzione del senso comune non rimanendo condizionati da quello presente. Numerosissima è la letteratura che lega strategie come quella di Podemos alla lettura gramsciana, ma basti ricordare la dichiarazione di Pablo Iglesias: “Digamos que tras los presupuestos teóricos y sobre comunicación de Podemos hay una lectura muy específica de Gramsci”.

Questo tipo di esperienze della “sinistra post-2008” hanno ottenuto qualche successo proprio sul fronte dello spostamento dell’asse del dibattito pubblico e dell’influenza delle coscienze, innanzitutto fra coloro che abitano il nuovo grande centro e che quindi non esprimono un voto identitario, strappandoli spesso all’astensione. Alcuni esempi: al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017 Mélenchon è stato il più votato fra coloro che hanno fra i 18 e i 35 anni e fra coloro che dichiaravano di non sentirsi né di destra né di sinistra (fonte: Regards.fr). Nelle elezioni britanniche del 2017 il 66% dei giovani fra i 18 e i 19 anni, il 64% degli studenti e il 54% dei disoccupati hanno scelto di votare laburista (fonte: yougov.co.uk). Il “Washington Post” ha stimato che Sanders ha raccolto il 29% di voti alle primarie nella fascia under 30, più di quelli di Clinton e di Trump sommati.

Poiché il nuovo “centro” è appunto contendibile, non stupisce che diventare mainstream sia l’ossessione anche delle “nuove destre”. In Italia, ad esempio, dalla possibilità di far proliferare “fenomeni morbosi” nell’interregno, dalla strumentalizzazione della crisi di autorità determinata dal decadere della vecchia classe dirigente che perde presa sul reale, passando per il rapporto fra ideologia e sua “incarnazione” nel blocco sociale, è la Lega il soggetto politico che più di altri sembra un buon interprete del pensiero “gramsciano”. Questo soggetto, come tutta l’Alt-right, utilizza strumenti concettuali estranei alla cultura della destra, che piega ai propri scopi grazie a intellettuali organici come de Benoist e altri. Negli anni l’estrema destra si è data un’articolazione ideologica (dal noto “scontro di civiltà” huntingtoniano alla più intricata tesi del mondialismo vs. nazionalismo), un’organizzazione territoriale stabile (nei casi francese e italiano non inventando nuove sigle ma rinnovando soggetti già esistenti) e ha coltivato una rete di alleanze globale (si pensi al The Movement di Steve Bannon), oltre a obiettivi europei, come dichiarato da Salvini con Le Pen in merito alle prossime europee: “L’appuntamento di maggio sarà la rivoluzione del buon senso”. L’obiettivo dichiarato è quello di interpretare un senso comune che hanno contribuito a plasmare.

Ci si scontra dunque con un ulteriore paradosso: come è possibile che alcune letture di Gramsci siano adottate tanto dall’estrema destra quanto dalla sinistra radicale? Se entrambe le opzioni sono in discontinuità con l’impianto del Washington Consensus che faceva riferimento ai conservatori di centrodestra e alla Terza Via nel centrosinistra, esse mirano tuttavia a obiettivi antitetici. Da una parte si ha il perseguimento della cosiddetta “democrazia illiberale” a modello capitalistico sostanzialmente invariato (modello Visegrad, Erdogan, Trump ecc.), dall’altra ci sono i soggetti “neosocialisti” che aspirano ad una forma di neoumanesimo ed ecologismo radicale mettendo in discussione i meccanismi capitalistici dalle fondamenta.

Questa strana congiuntura è possibile a causa della trasformazione delle democrazie occidentali in post-democrazie (Crouch) e della crisi strutturale dell’elemento liberale del sistema. Su quest’ultimo punto, è sufficiente leggere Francis Fukuyama, secondo il quale la globalizzazione, assottigliando il ceto medio, avrebbe favorito l’erodersi delle condizioni di sostenibilità delle liberaldemocrazie nel senso della possibilità dei cittadini di avere tempo e risorse sufficienti per interessarsi della cosa pubblica, costituire un nerbo abbastanza robusto della società civile, informarsi e organizzarsi in opzioni non prevalentemente protestatarie. A causa dell’aumentare delle diseguaglianze, che Fukuyama imputa alle dinamiche del capitalismo finanziario, l’ordine politico che egli aveva salutato come indefettibile nel 1989 è stato profondamente scosso nelle sue norme di convivenza politico-sociali. In larga parte, proprio in conseguenza dell’avvento di un sistema economico i cui assunti egli stesso aveva condiviso esplicitamente: contrariamente alla visione di Milton Friedman e dei maggiori fautori del neoliberismo, freer market and globalization non ha significato più libertà politiche, ma de facto un restringimento del loro campo. Questo squilibrio fra sfera economica e politica determina un calo di legittimità delle istituzioni, disaffezione, frustrazione, spoliticizzazione: l’inclinazione ai populismi. In questo contesto, considerando sia i soggetti “a destra” sia quelli “a sinistra”, l’attualità di Gramsci è da ricercarsi non tanto in una sorta di validità astorica del suo pensiero o di preveggenza, bensì nel riconoscimento del fattuale utilizzo di alcuni suoi strumenti concettuali da parte dei soggetti politici che provano, e a volte riescono, a diventare mainstream.

Restringendo invece lo spettro di osservazione ad esperienze come quella di Cobyn nel Regno Unito e delle nuove sinistre, sembra opportuno rilevare che – si pensi ai piani pubblici per la piena occupazione negli Stati Uniti o i modelli alternativi di proprietà del Labour britannico – sono esperienze tese non solo alla modifica dell’egemonia sul piano culturale, ma a una riconfigurazione degli assetti produttivi. Essi promuovono la più ampia capacità possibile di programmazione, decisione pubblica e autodeterminazione dei lavoratori all’interno degli assetti costituzionali moderni, proprio al fine di diminuire le diseguaglianze e rafforzare il sistema politico, contendendo così efficacemente il nuovo “centro” all’estrema destra. Se si vuole mantenere il suffragio universale, anche senza sposare la visione dei protagonisti dello scenario politico sopra citati, è ormai difficile affrontare la discussione sul se e come “salvare” l’elemento liberale senza affrontare questo nesso. Cioè senza discutere del lato sostanziale e non formale del secondo elemento, quello democratico, ragionando di democrazia innanzitutto economica. In fondo lo sosteneva anche Norberto Bobbio, ammonendo sull’impossibilità della democrazia politica di durare se non diventa anche democrazia sociale. Il pensiero gramsciano, nei suoi maggiori interpreti a sinistra oggi, si è trasformato de facto in un mezzo per tentare, sempre per dirla con Bobbio, di avvicinare la democrazia nel suo ideale limite alla pratica.