Gualtieri non trova il bandolo di una proposta politica all’altezza della sfida per il Campidoglio

A ridosso ormai della presentazione delle liste, il centro sinistra si dispone a Roma a vivacchiare nel conformismo. Non è un buon segno: in sostanza manca una vera spinta ideale. Sarebbe opportuno incrociare la lezione di Sturzo circa l’importanza o meglio la centralità del programma.

Attorno a Gualtieri si va formando unombra di declino. Fatica a reggere, più o meno, il gruppo dirigente che ha sostenuto negli anni le candidature di Veltroni e Marino per il Comune di Roma, di Zingaretti per la Provincia prima e la Regione dopo. Cambiano gli equilibri delle frazioniin campo, ma sempre di ex Ds si deve parlare. In questa fase, appannata la stella di Bettini, i giochi sono in mano alla corrente che una volta si riconosceva nella leadership di DAlema.  

Perché il declino? Incide senza dubbio lanagrafe: le nuove leve di un tempo ora che non lo sono più denunciano la perdita, almeno in parte, di quello smalto che in genere ricopre e impreziosisce lazione giovanile. Tuttavia c’è anche un tarlo che logora una lunga esperienza politica alla cui origine si deve rintracciare la tipica formazione del mondo comunista, ovvero labnegazione fino al sacrificio, ma anche la chiusura psicologica, prima ancora che politica, nel proprio ambito identitario. Qui c’è un limite che tende a manifestarsi con sempre maggiore consistenza.

Sembra infatti che il concetto di pluralismo, mai acquisito correttamente da un partito comunque a base marxista-leninista, stenti a materializzarsi oggi nellorizzonte di una classe dirigente che pure ha fatto i conti, spostando in avanti lidea di cambiamento e inserendola in un processo non più rivoluzionario, con la storia della sinistra di opposizione. Lo si vede nel modo in cui si è plasmato finora il quadro politico-organizzativo del candidato sindaco, con il Pd contratto nellimmobilismo e una coalizione senza spessore. È il risultato – per adesso? – di questa reminiscenza anti pluralismo, per cui il controllo delle operazioni diventa infine un meccanismo di mera gestione degli organigrammi di potere (reale o presunto).

Prevale insomma il desiderio di uniformità, come se essa afferisca a un universo di superiore garanzia e maggiore sicurezza. Orbene, si potrebbe notare che non così fu pensato lUlivo, né così tanto meno il Pd; che anzi, affidandosi i più alla energia vitale del pluralismo, nelle diverse  stagioni del centro sinistra ha operato lambizione di fare nuove tutte le coseproprio in virtù di una felice contaminazione di tipo ideale. Certo, poi si è constatato che dietro lambizione non cera la formula capace diinverarne il contenuto, sicché è iniziato un difficile e non concluso esame di coscienza, con alti e bassi, senza una direttrice chiara. La crisi del Pd sta in questa irrisolta  controversia, aggravata dallultima secessionein chiave lib-lab di Calenda.      

Gualtieri non si avvede del pericolo? Probabilmente è alla ricerca di una leva che possa (ri)sollevare un mondo bloccato, impoverito culturalmente, persino depresso. Un mondo, tuttavia, che sfoga nel pragmatismo la voglia di vincere, tralasciando la preliminare necessità di convincere, come se la Città Eterna non avesse maturato nel frattempo, lungo tutto il quinquennio grigio e improduttivo della Raggi,  il bisogno di un di più”, vale a dire di una nuova sintesi popolare (vedi Sturzo e la sua nozione di riformismo). Ecco, questa lezione esalta opportunamente la centralità del programma, vero perno della visione sturziana del progresso. E proprio a questa cultura riformatrice popolare, degna di stare al passo con i tempi, il possibile sindaco di Roma dovrebbe guardare con interesse e in fondo con rispetto.

Spiace dirlo, ma finora non ne ha dato prova.