Gubert, «sono entrato da “esterno” in politica. La Dc ha rappresentato molto per l’Italia. De Gasperi? Un faro anche per l’oggi».

Renzo Gubert sociologo, agricoltore e politico. Nato a Primiero, provincia di Trento, l’11 agosto 1944, primo di dieci figli e, a sua volta, padre di nove figli. Si laurea in sociologia nel 1969 con il prof. Franco Demarchi riportando il massimo dei voti e la lode. Si divide tra Tonadico, dove vive e fa agricoltore part-time con la collaborazione di moglie e figli, producendo per i consumi della famiglia, e Trento, dove si immerge nei suoi studi di sociologia. Il nostro dialogo si tiene dopo un pomeriggio dedicato alla coltura della vite. 

Gubert ha operato una scelta educativa forte per la famiglia: quella di fare a meno della Tv come modello divulgativo e consumistico.  Il suo percorso professionale lo vede, dopo i perfezionamenti in Sociologia all’Università Cattolica di Milano e a New York, nell’insegnamento di Sociologia alla Cattolica di Milano dal 1973; nel 1980 diventa professore ordinario e nel 1991 succede a Franco Demarchi nella cattedra di Sociologia II; per quasi dieci anni è Direttore di uno dei due Dipartimenti di ricerca sociale dell’Università di Trento.

Compie numerosi studi e ricerche di rilievo nazionale sui temi delle relazioni etniche, dei valori in Italia e in Europa, dei giovani, dello sviluppo nelle aree marginali di montagna, del rapporto tra valori e sviluppo nelle diverse aree del pianeta. Con Gubert rivisitiamo alcuni passaggi della sua storia politica. 

Caro Renzo, tanto per cominciare: come ha avuto inizio  il tuo coinvolgimento nella Dc? 

Con l’Assemblea degli Esterni, voluta dalla segretaria Piccoli per aprire e rigenerare il partito, nel novembre del 1981. Mi avevano nominato appunto come “esterno” in quanto professore. Non ero iscritto. Mi hanno cooptato nel Comitato regionale. In precedenza avevo militato nell’Azione Cattolica e sono stato anche presidente diocesano della FUCI. Direi l’ultima FUCI, poi è morta. In quel momento esplodeva il ‘68 e, per parte mia, sono rimasto nel gruppo dei giovani Cattolici universitari a fare attività. Avevamo una cooperativa e organizzavamo le vacanze e gli esercizi spirituali con gli universitari a San Martino di Castrozza. 

Ero uno dei capi dei studenti contro i contestatori a Trento, poi nel 1969 sono andato alla Cattolica di Milano. Ho visto da vicino il movimento di Capanna, poi la reazione di Cl. Ho vissuto le turbolenze nella Cattolica dove sono andato con il prof. Franco Demarchi che insegnava sociologia urbano- rurale a Trento e sociologia generale a Milano e a Trieste. Poi nel ‘74 ho iniziato a insegnare a Trento. 

Dunque, negli anni ‘70 hai vissuto la contestazione, il periodo delle violenze… Accennavi alla risposta che seppe organizzare CL (Comunione e Liberazione) agli estremisti di sinistra, rischiando molto. 

Sì, ho vissuto tutta quella fase e anche quella antecedente. Mi sono battuto per la difesa della democrazia e del diritto allo studio, contrastando ideologia e pratiche del Movimento Studentesco degli anni ‘67-‘69. 

Come li vedevi i leader della Dc di Trento, Piccoli e Kessler? 

Il primo rapporto è stato con Flaminio Piccoli che mi ha coinvolto – come dicevo all’inizio – nell’Assemblea degli Esterni. Indubbiamente era lui il capo della Dc, il vero riferimento per molta parte dei trentini. C’era anche Bruno Kessler, ma non lo frequentavo stando nel partito…sull’altro versante. Devo dire però che non sono mai stato doroteo. In realtà a Trento ho fondato insieme ad altri il Movimento popolare, che ha finito per appoggiare Piccoli e i dorotei. In sostanza, il mio rapporto con loro passava attraverso il Movimento Popolare di Formigoni, molto forte a Trento avendo una quota rilevante di iscritti al partito e con ciò garantendo ai dorotei una larga maggioranza interna. Non era molto forte in sè, il Movimento popolare, ma lo era abbastanza per suscitare l’interesse di altre correnti democristiane. 

Dopo l’Assemblea degli Esterni sono stato cooptato nella direzione regionale. Poi mi hanno chiesto di candidarmi alle Regionali, nel 1983, ed ho ottenuto un buon risultato: primo dei non eletti. Ero un “esterno”, tutti i voti che presi venivano dal mondo cattolico. Per me fu un notevole successo personale. 

Mi sono trovato allora a intensificare il mio impegno nel Movimento popolare: ho fatto il sindacato delle famiglie, portando avanti tematiche sociali, mi sono occupato di scuola… 

Hai avuto esperienze sul territorio, nelle istituzioni e ancora nel partito? 

Ho ricoperto vari incarichi di amministratore locale: prima consigliere comunale a Tonadico e a Fiera di Primiero, poi capogruppo Dc al Comprensorio di Primiero, infine Assessore comprensoriale all’Urbanistica.

Anche nel partito sono stato chiamato a ruoli di una certa responsabilità. Nel 1992 sono stato eletto direttamente segretario provinciale della Dc. Serpeggiava il disagio nella base del partito a causa di Tangentopoli, soprattutto il disagio attraversava i dorotei, non a caso i più decisi sulla strada del rinnovamento. Puntavano ad eleggere al ballottaggio un segretario “nuovo”. 

Successivamente, nel 1994, mi sono candidato con il Ppi di Martinazzoli, risultando eletto nel proporzionale. 

Purtroppo è seguita la scissione. La storia la sai, la conosci bene. Nel 1994 era stato Buttiglione a caldeggiare la mia candidatura, nonostante avessi manifestato il desiderio di non abbandonare l’insegnamento universitario. Quindi sono stato rieletto nel 1996 e nel 2001 nelle liste del Popolo delle Libertà, facendo campagna elettorale nel collegio che fu di Alcide De Gasperi. Devo riconoscere, a scanso di equivoci, che Buttiglione mi è stato sempre vicino in tutte le vicende appena descritte. 

Ecco, a proposito, nei giorni scorsi lo abbiamo ricordato: che rapporto ideale hai avuto con De Gasperi? 

La memoria di De Gasperi ha guidato la mia azione. Da noi lo si ricorda anche per gli accordi sull’Alto Adige. Ogni volta, ad agosto, le tradizionali commemorazioni che cadono in coincidenza con la scomparsa, illuminano di luce nuova la sua sua opera. Nell’occasione mi è stato anche possibile conoscere i familiari dello statista.

Per noi trentini De Gasperi rappresenta un simbolo dell’autonomia di questa terra. In fondo, perché era contrario alla guerra nel 1914? L’interventismo, sostenuto da Cesare Battisti, trascurava fatalmente la primaria esigenza del Trentino: quella, cioè, dell’autonomia. Invece per De Gasperi, a fronte della retorica bellicista, contava anzitutto la difesa dell’autonomia.

Alla luce della guerra in Ucraina che ne pensi? 

Nel secondo dopoguerra le grandi scelte dell’Italia hanno tutte il timbro di De Gasperi. Guardiamo alla Nato e pensiamo a lui, alla determinazione che mise nel sostenere l’ingresso dell’Italia: la sua fu preveggenza. Anche i Paesi che stanno fuori ora vogliono entrare nell’Alleanza! 

Come sono i rapporti politici con la Südtiroler  Volkspartei? 

Buoni. In Alto Adige era forte la destra nazionalista. Ebbene, la Dc è sempre stata vicina alle minoranze. L’idea del “Pacchetto” per garantirne le tutele è nata in ambito Dc. Tra i protagonisti di quella soluzione ci fu anche Aldo Moro. Occorre riconoscere che nella comunità degli italiani dell’Alto Adige si manifestò un certo disappunto, ma il consenso adesso è largamente consolidato.  

Torniamo al partito. Dossetti come lo vedevi?

Ero troppo giovane per avere contatti con Dossetti politico, all’epoca della sua battaglia all’interno della Dc in nome della “rivoluzione cristiana”. Da adulto ho potuto intrattenere rapporti di collaborazione e amicizia con Achille Ardigò, sociologo e soprattutto antico sodale di Dossetti. Mi capitò, nel 1974, di recarmi insieme Demarchi a Gerusalemme e li ho conosciuto di persona Dossetti: non il politico, ma…il monaco. 

Che impressioni ti ha fatto quella volta? 

Certamente la mia simpatia era per De Gasperi. Devo dire però che in quell’incontro Dossetti mi fece una bella impressione: mostrava chiaramente di essere un uomo di profonda fede. Non imbastì nessun discorso politico, mai. Il dialogo si svolse sul piano della riflessione religiosa. Demarchi voleva capire da Dossetti come si atteggiava rispetto al cristianesimo il mondo arabo. Ne scaturì una discussione ricca di spunti. Dossetti era molto interessato a fare da ponte tra mondo cristiano e mondo musulmano, avendo particolarmente a cuore il dialogo interreligioso. 

Hai alle spalle una bella esperienza politica. Puoi darne un giudizio sintetico? 

La politica è passione e sacrifico. Spesso ti porta a “vivere fuori” e a trascurare qualche impegno familiare. A queste carenze ha supplito mia moglie, che riconosco essere stata molto brava. Ciò è valso anche nell’educazione dei figli, nel senso che non hanno avuto un atteggiamento di distacco. Penso, in definitiva, di non aver rubato nulla al contesto familiare e forse ho anche dato qualcosa. Il rapporto in casa è stato sempre molto intenso. 

Invece cosa pensi dei politici di adesso? 

Sono degli improvvisati, se non degli incapaci. Seguono i sondaggi, prendono posizione a seconda dell’umore prevalente nella pubblica opinione, danno spazio al peggio del peggio. 

Se dovessi fare un bilancio, che diresti del tuo impegno nella vita politica? 

Positivo. Ho solo un rammarico, quello che ancora pesa per l’avvenuta scomparsa della Dc. Ritengo infatti che sia utile per l’Italia un partito di ispirazione cristiana. Abbiamo una tradizione molto lunga di storie e personaggi. Il fatto che sia svanito tutto e si faccia fatica a ricostruire, costituisce davvero un motivo di rammarico! Mi sono messo a piangere quando c’è stata la scissione del 1994 del Ppi, con una parte di qua e una di là. È stato come affrontare la morte, vivere un lutto… 

A cosa è imputabile la fine, così repentina e rovinosa, della Dc?

Ancora oggi considero un errore il cedimento a sinistra. Ognuno aveva la sue ragioni, ma nella scelta ulivista ho visto il distacco dai nostri valori.

Non credi, con il senno di poi, che la scissione sia stata comunque una decisione sbagliata? Non si poteva combattere da dentro?

Si sono sommate due reazioni, senza che qualcuno abbozzasse una seria mediazione. La prima affondava le radici nella decadenza di un partito che non mostrava più un vero attaccamento agli ideali; la seconda, più legata alla contingenza del momento, prendeva corpo in ragione di atteggiamenti ostili nei confronti di quella che all’epoca rappresentava una minoranza. La posizione di Rosy Bindi, soprannominata finanche benevolmente la “pasionaria”, ha spezzato la trama dell’esperienza democristiana e ha colpevolizzato senza giustificazioni valida un’intera classe dirigente.

Chi erano i tuoi riferimenti nella Dc?

Ho stimato Piccoli, ma avevo pure grande considerazione per Donat Cattin. Nella sinistra sociale ritrovavo una forte connotazione di autonomia politica, con legami e sentimenti popolari, come pure con valori propriamente “nostri”. Non è accettabile che siano le alleanze a innervare e qualificare i programmi di un partito. La Dc aveva un suo bagaglio di idee ed esperienze, aveva per così dire una storia…Noi dovevamo difenderla.

E l’esperienza dell’Udc come l’hai vissuta? 

In realtà non l’ho vissuta appieno. Sono rimasto nel Centro Popolare, un partito che intendeva conservare la propria autonomia, in Trentino, rispetto all’Udc. Ed è stata l’Udc a rifiutare la formula del patto federativo. Ciò nondimeno, a livello parlamentare, ho fatto parte del gruppo Udc. Insomma, la distinzione ha riguardato un aspetto particolare, l’appartenenza cioè all’Udc in quanto partito, essendo vincolante per me l’esperienza autonoma del Centro Popolare.

Renzo Gubert è questo, un signore della politica, uno studioso, un cattolico impegnato. Ha completato da poco un’ultima ricerca sociologica sul Brasile e l’Argentina. Questa conversazione è avvenuta in un assolato pomeriggio trentino, mentre uno sguardo restava comunque rivolto al frutteto, alla vigna e agli animali domestici. Traspare nel suo habitat contadino l’amore per le tradizioni della terra, che si ravviva anche grazie alla passione della moglie, Maria Silvia, per le scienze naturali. Ciò nondimeno, il “contadino” non rinuncia mai a tuffarsi nelle sue letture e nelle sue riflessioni, quindi nel lavoro di ricerca, per mettere a fuoco i fenomeni sociologici emergenti, anche a livello globale.