“Altri 25 milioni di euro per gli operatori delle mostre d’arte, con un nuovo bando da 10 milioni di euro per il ristoro delle perdite subite da cancellazione, annullamento, rinvio o ridimensionamento di mostre previste anche nel periodo autunnale”. Parole pronunciate dal Ministro per i Beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini, pochi giorni fa.

Certamente il Covid19 ci ha immersi in una stagione di cui non si aveva memoria, durante la quale cultura e turismo hanno subito gravi danni economici e non solo. Molte sono le mostre che, purtroppo, non si sono potute realizzare oppure sono state inaugurate nel periodo di minore “lockdown”, ma hanno poi dovuto tristemente chiudere i battenti.

Una di queste è l’esposizione “I marmi Torlonia. Collezionare capolavori.”, allestita fino al 29 giugno 2021 ai Musei Capitolini (Villa Caffarelli) di Roma: oltre 90 marmi della statuaria classica tra i seicentoventi catalogati e appartenenti alla collezione Torlonia, sicuramente la più prestigiosa raccolta privata d’arte antica del mondo.

Curata da Salvatore Settis e Carlo Gasparri, essa si articola come un racconto in cinque sezioni, in cui si narra la storia del collezionismo dei marmi antichi, romani e greci, in un percorso a ritroso che comincia con l’evocazione del Museo Torlonia, inaugurato nel 1875 dal principe Alessandro, ed aperta al pubblico fino agli inizi del Novecento.

Sarcofagi, busti e statue greco-romane presenti provengono da antiche famiglie patrizie oppure da scavi. La collezione iniziò nel 1800 con l’acquisizione delle sculture riunite negli anni da Bartolomeo Cavaceppi, artista e restauratore.

Molte opere sono databili all’età imperiale, il cui inizio si situa intorno al 27 a.C. con Augusto. Tra queste risalta un sarcofago con coperchio decorato con le fatiche di Ercole: marmo bianco scolpito con subbie, scalpelli, gradine e raspe. Un lavoro stupefacente di grande spinta innovativa, anche nella ripetitività di Ercole. Infatti, la reiterazione modulare di una o più figure sarà, tra il III e IV secolo d.c., elemento fondamentale di un segno di cambiamento artistico, soprattutto quando si vorrà dare un senso plastico il più vicino possibile alla realtà (si veda, ad esempio, il sarcofago di Giunio Basso). Infatti, superando allegorie e simbologie prerogative dell’arte paleocristiana (come il sarcofago del Buon Pastore), l’arte romana racconta la storia del vissuto, attraverso scene in sequenze sulla base di una stretta conseguenzialità logica e temporale.

Un altro marmo greco, denso di immagini, si presenta a rilievo e rappresenta una scena portuale. All’origine lo si può immaginare valorizzato da tonalità diverse. Infatti, durante i restauri sono state rinvenute tracce di colore. Un cromatismo che spesso non riusciamo ad immaginare, poiché siamo abituati a vedere opere greche e romane in marmo bianco, quel bianco tanto amato dall’archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), convinto, come numerosi artisti e studiosi, dell’acromia delle sculture classiche.

L’idea della scultura antica “pura” precede il Settecento. Durante il Rinascimento ed il Barocco, ad esempio, l’artista cercava con cura e pazienza marmi dalle particolari venature ritenuti adatti all’opera che intendeva creare, valorizzando al massimo espressione e gestualità. In quei periodi, la tecnica dello scalpello si rifaceva ai grandi maestri del passato. Con queste idee nella mente immaginiamo Gian Lorenzo Bernini mentre, su commissione, restaura la scultura presente nell’esposizione, che raffigura un caprone in posa di riposo. La maestria dell’artista la si coglie nella fattura della testa, rifinita, elaborata e resa più vivace da una barbetta che, a prima vista, ricorda i dettagli del suo “Nettuno e tritone” (realizzato tra il 1622 ed il 1623).

Dell’età adrianea si fa ammirare “Hestia Giustiniani” (il nome deriva dal banchiere Vincenzo Giustiniani suo primo proprietario), molto probabilmente copia di un originale di età classica. Del resto, molte sculture sono copie romane di bronzi originali di epoca precedente. Nell’opera si nota una simmetria articolata con un velato accenno di libertà espressiva: le braccia sono in una posa che denota una ricerca di naturalezza, pur mantenendo una elegante fissità.

Osservando i corpi marmorei, si valuta subito l’importanza del “Doriforo”, immagine simbolo del “Canone” di Policleto, che stabiliva precise regole circa i rapporti fra le varie parti del corpo umano, introducendo un nuovo senso del bello. 

Grande armonia troviamo nel marmo lunense “Fanciulla da Vulci”: un capolavoro realizzato tra la fine del periodo repubblicano e l’inizio dell’era augustea. La testina, probabilmente progettata con un disegno eseguito con pochi e precisi tratti, sembra essersi materializzata in un gioco tridimensionale di grande rigore. Lo stile, estremamente moderno, appare distante da quello utilizzato per scolpire il greco ellenistico “Ritratto virile c.d. Eutidemo di Bactriana” (Re originario di Magnesia vissuto a cavallo del 3° sec. a.C). In quest’ultimo, nel volto si distinguono i segni del tempo ed una maggiore espressività, un’esecuzione in cui si coglie la realtà vissuta. Analoghe riflessioni confluiscono nel “Ritratto di vecchio”. Proveniente da Otricoli, esso è stato posto su un busto di epoca successiva: il senso tattile delle guance supera il realismo di Eutidemo, grazie ad una sapiente lavorazione della pietra 

Il visitatore si perde nel labirinto delle opere, soffermandosi su ciò che più colpisce, catturato da corpi i cui arti dialogano in rapporti chiasmatici tra tesi ed arsi. Visi-memorie di vite passate e creature mitologiche come una Ninfa ed un Satiro pronti alla danza con gesti di rara bellezza e sensualità. Il Satiro è leggermente chinato in avanti e scandisce il tempo con il suono ritmato dallo strumento a percussione “kroupezion”, che si legava sotto al piede, mentre la Ninfa ha accettato l’invito e si sta preparando per rappresentare la coreografia della Natura.