I TANTI RAGAZZI SOTTO UN TRENO E I CODICI RELAZIONALI CHE I GRANDI TRASCURANO

Perché neanche immaginiamo quanto non sappiamo di loro. Che cosa vedono, cosa intendono, cosa sentono e desiderano i ragazzi? Privare un adolescente del suo smartphone è come privare Anna Frank del diario. Carlo Acutis, il ragazzo morto poco più che quindicenne nel 2006 e proclamato Beato dalla Chiesa Cattolica nel 2020 (in piena Pandemia), se è da qualche parte avrà accolto con sé anche Giulia e Alessia, alla faccia di tutti i moralismi, i moralisti e i bacucchi sentenziatori sui ragazzi.

Nel 1943 Vittorio De Sica gira “I bambini ci guardano”, un film sulla dissoluzione delle relazioni famigliari vista dagli occhi di un bambino. Il piccolo ad un certo punto scappa e camminando sui binari va incontro ad un treno che rischia di travolgerlo. Metafora di sfide insostenibili per le proprie risorse. Al di là dello specifico contesto del film la domanda e la risposta sono nel titolo: i bambini, i ragazzi, non sono affatto in attesa di farsi un’idea del mondo ma se la stanno già facendo, e con le tessere che trovano ognuno di loro prova a costruirsi un puzzle a modo suo. Il mondo che hanno intorno è quello degli grandi (non credo vedano degli ‘adulti’…), e si regolano di conseguenza. Naturalmente i ragazzi non sono un blocco che marcia come un sol uomo – come invece i grandi per sbrigarsi li categorizzano, sempre cedendo al sentenziare invece che all’ascoltare (che vuol dire stare a sentire) -: ogni ragazzo reagisce in base alla propria differente sensibilità.

Prendendo a prestito il paradigmatico titolo della Triennale di Milano, Unknown Unkowns (ciò che non sappiamo di non sapere), dovremmo essere allarmati di quanto ignoriamo la mole di ciò che non sappiamo, ed avere maggiormente presente di quante consunte inespressive etichettature si avvalgono i nostri giudizi sui ragazzi e sui giovani: superficiali, immaturi, neghittosi, irrispettosi, impertinenti, svogliati, maleducati, volgari, Neet (per cui pigri per cromosoma), ecc. ecc. 

Rispetto a questa pletora di scemenze, il tutto continuamente condito dallo stantìo “io, alla tua età…” (e, sui gusti: “ai miei tempi…”; messaggio: le mie preferenze sono serie, le tue sciocche), cosa può fare un ragazzo? Semplicemente ignorare quando non detestare tutto quello che era prima di lui; e ovviamente la Storia è la prima a farne le spese (nonostante essa sarebbe la chiave per il viaggio in quella logica del dono che è l’unica verità della vita).

Né sdraiati né sfaticati.

Gli stessi media su questo presentano pochi, pochissimi interventi. Voglio qui ricordare per controtendenza e lucidità due Editoriali, il primo di Luigi Mascheroni su “il Giornale” del 3 Maggio 2020 (in piena temperie Covid) dal titolo “Macché sdraiati. Bravi ragazzi” (” … Un ragazzo tra i 12 e i 18 anni è un alieno rispetto alla famiglia e alla casa. La vita è fuori, dove ci sono i confini da infrangere, gli errori da fare, le esagerazioni da provare. Eppure rispettano un quotidiano assurdo ma giusto, stando dentro in nome della salute là fuori. Accettano la sottrazione di libertà non per indifferenza, ma perché sanno quanto vale e la rivogliono indietro, appena possibile, intatta.”). Il secondo di Francesco Riccardi su “Avvenire” del 2 Agosto scorso, “Basta parlare di «sfaticati»”: ” … La si faccia finita, insomma, di chiamarli – di chiamare gli altri – ‘sfaticati’. E soprattutto, ci si impegni per favorire concretamente la possibilità per i giovani di diventare autonomi e di ‘fare famiglia’. Perché il dato davvero drammatico per il mercato del lavoro è che – con la crisi demografica in atto – tra non molto tempo a creare difficoltà alle attività economiche non sarà la volontà o meno dei giovani di lavorare, ma che di ragazzi semplicemente non ce ne saranno più.”.

Una Scuola per intercettare se stessi.

Quanto alla Scuola, pur inchinandoci all’impegno davvero decisivo di chi si è, e si sta, rimboccando le maniche, bisogna osservare che la stessa scuola “non insegna il futuro” perché ancora tarata sul passato, lungo e illustre, mentre ai ragazzi “piacerebbe che i docenti sapessero come si fa a capire cosa si desidera per sé nel futuro e come si fa a intercettare la propria profonda inclinazione, magari nascosta da un sarcofago di cattivi voti, che qualcosa dicono ma poco e male” (Gustavo Pietropolli Charmet, Il motore del mondo. Come sono cambiati i sentimenti, Solferino, 2020, pag. 41).

“I disagi che i ragazzi manifestano, dice l’autore [Pietropolli Charmet, ndr], sono riconducibili a una serie di sentimenti prevalenti nella geografia dell’adolescenza odierna: speranza, colpa, vergogna e vendetta, odio, paura, amicizia, dolore, noia e amore. Sono nove “etichette generali” che aiutano a mettere un po’ in ordine i tanti aspetti complessi delle dinamiche adolescenziali, cioè a descrivere il motore del (nuovo) mondo.

… I ragazzi di oggi (ne ho incontrati molti lavorando nella Scuola, specialmente negli ultimi dieci-quindici anni) si stanno confrontando con “entità” diverse e nuove di cui nessuno si rende conto facilmente mentre le sta vivendo, pensiamo solo all’esposizione incessante alla manipolazione della rete nella quale la loro intelligenza, l’emotività, l’affettività sono “sussunte”. Di fatto vivono una sfida (di crescere oggi) nella sfida (in un mondo che si sta riformulando). Ragazzi in e, soprattutto, di questo mondo.” (Mauro Portello su “Doppiozero”, 3 Dicembre 2020).

Servire le nuove generazioni? Essere l’adulto che avresti voluto accanto a te quando eri un ragazzo.

“In fondo, la regola da seguire è una: cerca di essere l’adulto del quale avresti avuto bisogno quando eri un ragazzo. Tutto il resto è secondario”: ecco la chiosa di sintesi del romanzo (realistico) del Prof. Guido Saraceni, Fuoco è tutto ciò che siamo, Sperling & Kupfer, 2019.

Un ragazzo non va ‘riempito’ ma ‘acceso’.

Saraceni riecheggia un pensiero di Plutarco: «La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come un fuoco da ardere, ha bisogno solo di una scintilla, che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità».

Come dichiara di sentirsi l’88% tra i 14 ed i 26 anni? “Solo o molto solo” (dati Febbraio 2022). Adolescenti preoccupati per la loro salute mentale, e non sanno come chiedere agli adulti di prendere in considerazione il loro disagio.

L’Osservatorio Indifesa, di Terre des Hommes e OneDay, ha diffuso il 3 Febbraio scorso, in vista della Giornata nazionale contro il bullismo e cyberbullismo (8 Febbraio), una serie di dati su alcune percezioni di un campione di 1700 ragazzi/giovani tra i 14 ed i 26 anni. Si tratta della Generazione Z, gli ‘zoomers’ (anche per il riferimento alla piattaforma Zoom per collegarsi durante la Pandemia), i nati tra la fine del Secolo XX e il 2012/2015. Il Secolo iniziato con lo shock delle Torri Gemelle e proseguito con la crisi dei subprime del 2008 e il terrorismo dell’Isis. La Generazione Z s’imbatte in una offerta tecnologica impressionante, sono propriamente loro quelli che possono essere individuati come ‘nativi digitali’: una generazione che ha un “legame digitale con la rete” (Turner) e questo rapporto può aiutare a sfuggire le delusioni emozionali e mentali che incontrano nella vita off-line.

Per tornare all’indagine del Febbraio 2022 dell’Osservatorio Indifesa, emerge anche il fortissimo disagio psicologico causato, o esasperato, dai due anni di Pandemia. Il 37,5% degli intervistati teme l’isolamento sociale, il 35% ha paura di soffrire di depressione, il 22% di solitudine. L’88% dei ragazzi intervistati afferma di sentirsi solo o molto solo; tra le cause della solitudine: a) il 31% dice di non sentirsi ascoltato in famiglia; b) il 30% non si sente amato; c) il 29,2% non frequenta luoghi di aggregazione. «Quello che emerge è un grido di allarme – prosegue il rapporto –: gli adolescenti sono preoccupati per la loro salute mentale e chiedono a gran voce che il loro disagio venga considerato seriamente da parte degli adulti» (insegnanti e genitori in primis). Inoltre, su un totale di 23.292 risposte il 45% degli adolescenti afferma di aver subito bullismo, ed i principali luoghi dove ragazzi e ragazze subiscono bullismo sono la scuola (in classe! non nei corridoi, etc.) e pure gli ambienti sportivi: stiamo parlando dei due luoghi per antonomasia più sicuri agli occhi delle famiglie.

Se non è il luogo della rigenerazione delle possibilità di af-fidarsi, e nelle cose ultime della vita il porto di ritorno, la famiglia cos’è?

Queste evidenze statistiche mi richiamano alcuni versi di una canzone di Guccini del ’74, “Canzone della triste rinuncia”: “Ma è tardi, troppo tardi, piangere ormai/ Sulla rinuncia triste a quello che non fai”.  Sembra indicare una sorta di bandiera bianca da parte di chi è ormai definibile ‘adulto’ e così preoccupato di non perdere la sua sudata sedia sociale da rinunciare sia a mettere al mondo figli sia soprattutto ad educarli. E, ancor prima di educarli, ad guardarli, ascoltarli, com-prenderli (e chi non sa comprehendere resterà incompreso, annota Morin; da qui molti grandi incomprensibili).

 

Se “oggi è difficile per un uomo sapere qual è il suo posto”, come diceva il compianto Padre Gheddo (per il quale il cristianesimo senza missione semplicemente non esiste, e un cosiddetto ‘cattolico’ senza una sua missione semplicemente non è un cattolico), figuriamoci se si può pretendere che quale sia il proprio posto lo sappia un ragazzo od un giovane. Perché nessuno è più povero di chi non ha un posto; e quindi chi è fuori dal ‘paese’ (che vuol dire contrada, borgo, prossimità) è uno ‘s-paesato’. Ed in un tempo in cui la parola ‘ambiente’ sembra ovvia e chiara per tutti nessuno si fa cruccio che i nostri ragazzi siano dei ‘dis-ambientati’. Perché? Come ‘perché?’: ovvio, perché è più facile salvare la foresta pluviale di una tigre del Bengala che curare l”ambiente relazionale’, ‘il posto’ di cui hanno bisogno i ragazzi. Bisogno per respirare, intendiamoci, e non per fare i loro comodi, come siamo soliti pensare noi. O forse peggio, concedergli noi, nell’idea, fortemente sbagliata, direi allucinata, di facilitare loro la crescita.

 

Il dito sulla piaga, e sul rimedio, lo mette Provinciali quando il 3 Agosto su “Il Domani d’Italia” rappresenta la famiglia come ‘ambiente’: luogo di comunicazione. Conclude: “Eppure la famiglia dovrebbe essere il luogo della gratuità e della sincerità delle relazioni affettive. Il punto di partenza e di ritorno di una relazione basata sulla comunicazione e sulla prevalenza dei sentimenti. Esattamente quello che invece sta venendo a mancare negli orizzonti di vita della nostra intima quotidianità”.

 

Diceva il più grande interprete dello sviluppo del Paese come ‘configurazione di Luoghi’, cioè l’economista Giacomo Becattini, che il luogo è dove possono ri-abitare le coscienze vocazionali delle comunità. Luogo è genius loci. (Comunità peraltro tutte da rigenerare. Pensare di ridare un futuro alle comunità locali se per prime le famiglie non sono ‘comunità’ è costruire strutture anonime inservibili alle nuove generazioni.) Provinciali dice allora alcuni ingredienti necessari affinché un ragazzo cominci a curiosare interessato intorno alle possibilità di comunicazione fra generazioni in famiglia, e le accolga: gratuità, relazioni che sono innazitutto affettive (non è necessario che il ragazzo divenga ingegnere; e non è vero che anche una somma di insufficienze scolastiche lo costituiscano ‘bighellone’; non esistono teste vuote, e se esistono è perché la zucca vuota è di genitori che hanno rinunciato a guardare in volto i loro figli), punto di partenza e di ritorno (dice nulla il Padre e il Figliol Prodigo?; o vogliamo avere soldatini come il figlio maggiore che guarda caso rivendica per sé banchetti e non relazione?), zero rinfacciamenti, cura e quindi cultura dei sentimenti. 

 

Insomma: la famiglia come ‘posto’ di libertà, di scoperta, di differenziazione, di autonomia, di responsabilità, di comunione. Il luogo migliore per permettersi di sperimentare conversioni senza perdersi. Dove accorgersi che nessuno viene dal nulla, che ogni cosa ha un’origine e che la Storia conta. Se si vuole essere indipendenti. E cioè dipendenti da quel terzo soggetto della realtà che nasce da due e che si chiama Relazione.

“Ah felicità/

Su quale treno della notte viaggerai/

Lo so/

Che passerai/

Ma come sempre in fretta/

Non ti fermi mai”.

 

“Se no, sarebbe il caso/

Di provare a chiudere gli occhi/

E poi anche quando hai chiuso gli occhi/

Chissà cosa sarà”.

(Lucio Dalla, “Felicità”, 1988)

Che cosa vedono, cosa intendono, cosa sentono e desiderano i ragazzi?

 

“Se parliamo di futuro bisogna pensare che per loro il futuro è domenica. Sarò capace, domenica, di fare quel che non ho fatto? Se non sono capace sono inadeguato alla vita: mi ritiro, mi taglio, mi ammalo. Risolvono così l’inadeguatezza. Se però si accetta che al posto del padre siede il gruppo e che è il gruppo che decide cosa è importante o meno – esser bello? aver successo? occuparsi del pianeta? – il pensiero del gruppo può essere usato per accendere l’interesse, la vocazione. Il valore personale dell’insegnante è avere questo tesoro pazzesco di informazioni sul passato da trasmettere, ma parla del passato.” (“Come stanno gli adolescenti?”, Pietropolli Charmet intervistato da Anna Stefi, “Doppiozero”, 27 Maggio 2021).

 

Una ragione di vita vo cercando, ma non so come dirlo. Non so a chi dirlo. “A volte credo che mia sorella sia la mia unica ragione di vita”.

Così su Instagram Giulia, la 17nne di Castenaso morta insieme alla sorella Alessia di 15 anni nelle prime ore dell’ultima Domenica di Luglio di quest’anno alla Stazione di Riccione, travolte da un treno AV in transito. Dissolte da confondersi in un unico corpo, come avessero – e avevano – sempre condiviso una unica vita.

 

“Che sorella mia sorella”, annotava Giulia. Al di là delle ordinarie faccende famigliari delle due sorelle, le annotazioni di Giulia possono essere assunte come paradigmatiche del bisogno numero uno dei nostri ragazzi: essere accettati e amati per come sono. Solo questo permette che essi ‘divengano’, crescano, siano se stessi. Parlare di “ragione di vita” è espressione impegnativa. Attribuirla ad una relazione è considerazione dell’alterità. Evidententemente i ragazzi non sono così sprovvisti di senso. 

 

“Complici, inseparabili, sorelle e amiche del cuore. Anche nella morte che le ha portate via (Monari e Venturi, 31 luglio 2022)”. (Elisabetta Rotriguez su “milleunadonna”, 4 Agosto 2022). 

 

“Una sorella come migliore amica”, scriveva Giulia.

 

Non sappiamo cosa sia successo verso le 7 del mattino al binario 1 della Stazione di Riccione. Ma possiamo almeno tentare di immaginare con un gran trasporto di pietà possibili stati d’animo di due adolescenti in quella notte, per la prima volta – così avvallano le cronache – non accompagnate in auto dal padre per motivi di salute.

 

Giulia (in piedi da vantiquattr’ore) sdraiata a terra nel parcheggio della discoteca nelle prime ore del mattino. “Ho lavorato tutto il giorno”, dice al 24nne che si offre di dar loro un passaggio per la Stazione. Durante il tragitto il giovane presta il cellulare alla più piccola, che l’aveva scarico, per avvisare il padre: ‘stiamo bene, stiamo tornando’. La serata era partita male: sembra all’interno del locale a Giulia avevano rubato la borsetta con smartphone e documenti. La prima volta in riviera da sole e devono tornare a casa derubate.

 

Chi scrive scrive quasi sotto dettatura avendo esperienza diretta: io baby boomer, con famiglia generazione X e figlia quasi 18nne generazione Z. Quando ad una adolescente puoi rimproverare poco o nulla – a scuola tutti 9 e 10, studio fino alle 2 del mattino, riservatezza, attenzione alle regole civiche della convivenza, nessun colpo di testa -, cosa fai se vive sullo smartphone, se ovunque ti giri le amicizie più selezionate (sempre gen Z), brave a scuola e prudenti nei rapporti, vivono il mondo dei grandi come la Western Union del telegrafo i segnali di fumo degli Indiani? Nessuna diciassettene che oggi voglia essere inclusa e non esclusa dalle amicizie farebbe una telefonata al posto di inviare un messaggino. Altro che facebook dei matusa, che loro considerano un tranvai rispetto ad un Saturno V.

 

Privare un adolescente del suo smartphone è come privare Anna Frank del diario. Lì, in quell’aggeggio, c’è lui e le sue cose. Basta vedere quando la memoria è piena: se gli dici di recuperare spazio cancellando alcuni files è come chiedergli di cancellare se stessi, si rifiutano; casomai bisogna procedere ad acquistarne un altro più potente, con più spazio.

 

“…Riavvolgiamo il nastro. Uno dei testimoni ha raccontato che una delle due sorelle appariva profondamente turbata e in un visibile stato di alterazione. Potrebbe quindi essere verosimile che, in preda ad un’ansia esasperata dovuta alla perdita del telefono, una delle due sia stata indotta a gettarsi in mezzo alle rotaie, spingendo così anche l’altra sorella nell’estremo tentativo di salvarla? Più nel dettaglio, è plausibile che la disgrazia possa essersi verificata perché la ragazza che per prima si è buttata sui binari era in preda ad un eccessivo ed amplificato stato d’ansia connesso proprio alla sottrazione dello smartphone”. (Anna Vagli, giurista e criminologa forense, su “fanpage” del 2 Agosto 2022).

 

“…Il genitore dovrebbe cercare di avere più comunicazione e il ragazzo deve sapere di potersi fidare. Serve poi un’educazione al pericolo. Viviamo in una società in cui i ragazzi diventano adulti molto velocemente anche nell’ambito della sfera sessuale, però rimangono molto piccoli dal punto di vista emotivo”. (Daniela Chieffo, psicologa, psicoterapeuta, Pol. Gemelli, “Il Messaggero”, 8 Agosto 2022).

IL MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA

Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch”. Là dove cresce il pericolo, là cresce anche ciò che salva (Friedrich Hölderlin)

 

Fra tutti i resti irriconoscibili sparsi su settecento metri di binari dopo l’impatto, la Polizia è potuta risalire all’identità delle sorelle ritrovando un cellulare fracassato intestato ad una ditta di trasporti di Castenaso, quella del padre.

 

Così, quello che nella cappa di luoghi comuni che rendono impossibile farsi un’idea delle tecnologie e di internet in particolare, ecco che un cellulare mezzo rotto rivela un legame affettivo ed una appartenenza ad un nucleo famigliare in una strada di un luogo chiamato Madonna di Castenaso. Un cellulare scassato, che nell’immaginario facilone è solo strumento di disintermediazione, assurge a strumento reale di mediazione. Strumento che rimette in contatto (che qui è più che comunicare: è intimità, ‘contagio’) chi si vuole bene, chi vuole tornare a casa con chi aspetta a casa.

 

Carlo Acutis, il ragazzo morto poco più che quindicenne nel 2006 e proclamato Beato dalla Chiesa Cattolica nel 2020 (in piena Pandemia), probabilmente candidato a diventare il patrono della Rete, se è da qualche parte avrà accolto con sé anche Giulia e Alessia, alla faccia di tutti i moralismi, i moralisti e i bacucchi sentenziatori sui ragazzi.

  

Il cellulare ritrovato sui binari – capire la de-coincidenza, e il potente messaggio: l’unica cosa rimasta co-individuativa delle due figlie con la famiglia – è una reliquia della sopravvivenza di quei legami oltre ogni sciagura, perché ogni cosa amata non teme la morte. Quei legami che anche la tecnologia può alle volte significativamente rappresentare. Il messaggio nella bottiglia per chi pensa che non ci sia più nulla da fare. Come noi siamo sicuri la semplicità e l’innocente, anche ingenua, bella gioventù di Giulia e Alessia sapesse molto bene. 

 

Che ci perdonino, e ci ispirino una Nuova Comprensione dei nostri ragazzi.