“Questo libro cerca di fornire alcune risposte alle tante domande, con un tocco di ironia. Perché senza l’ironia affrontare la politica italiana davvero non è possibile”. Poche pennellate e tutto si colora, prende forma, diventa familiare. Si passa alla lettura, chiusa l’introduzione, con lo spirito giusto e l’attenzione dovuta. Bisogna riconoscere, anzitutto, che Ettore Maria Colombo, giornalista affabile e arguto, non smentisce una consumata propensione a manipolare le parole con la carezza del boxeur. Non ti accorgi quando tira la botta che fa più male delle altre. Ne dobbiamo tenere conto.

Come tanti giornalisti impegnati sul web non tanto per vezzo quanto per necessità, anche lui ha trasferito la battaglia della penna nell’universo digitale, ma si è voluto distinguere facendo uso dell’ironia, per l’appunto, giocando cioè con il proprio nome, sicché ha denominato il blog di sua pertinenza “L’uovo di Colombo”. Tuttavia, alla fine dello scorso anno ha mandato in stampa questo suo “Piove governo ladro” (All araound, 2019) e vi ha subito aggiunto, come sottotitolo, una frase illuminante: “Un dizionario della politica della Terza Repubblica, senza dimenticare le altre…”.

Si tratta di un viaggio per mari e per monti, ovvero per i luoghi più disparati della politica, che Colombo idealmente affronta con leggerezza, alla ricerca di tesori ovunque nascosti. Qui sta l’originalità dell’impresa. Ogni tanto, infatti, arrivano in libreria nuovi lavori di ricognizione sulle parole della politica. Alcuni hanno l’ambizione, non sempre giustificata, di stare al passo con le magistrali lezioni di un Norberto Bobbio; altri tentano la via più facile della divulgazione, senza troppo affannarsi a comprovare l’esistenza di un substrato teorico a base della proposta editoriale. Nel nostro caso, invece, non appena si compulsa questo libro di trecento e più  pagine, si ha l’impressione che la fatica maggiore dell’autore sia consistita nell’inventare un collage di temi e soggetti, senza perdere il filo conduttore della rappresentazione scritta, quindi con dovizia di conoscenza e capacità di giudizio.

Le voci riguardano, a seconda dei capitoli, le locuzioni più note e i vari “oggetti” della politica, come pure i protagonisti più importanti della vita pubblica, sia di oggi che di ieri. È una carrellata di fatti e figure che si rincorrono e s’intrecciano, obbligando chi legge a seguire il tracciato di una originale pista conoscitiva. Si passa dunque da Togliatti a Monti, o da De Gasperi a Zingaretti; si parla di democristiani e comunisti, ma anche dell’odierno fronte sovranista; si citano le “convergenze parallele” o il “maanchismo”, vale a dire il “ma anche” dell’impreggiabile imitazione di Veltroni messa in scena da Crozza; si arriva a spiegare, quando pure sembra inutile oggi qualsiasi spiegazione di tal genere, vista la riluttanza di consumatori dell’antipolitica, cosa voglia significare “filibustering parlamentare”.

L’ironia di Colombo è un venticello che scuote le abitudini o le presunzioni o le facilonerie, di cui in effetti siamo tutti  prigionieri inconsapevoli. Per qualche verso, a dispetto della sicurezza che sovrasta il discorso pubblico, le note del libro servono a decomprimere il sunto delle normali convenzioni logiche, stilistiche e concettuali. Basti far ricorso, a mo’ di esempio, al titolo che campeggia in copertina: qual è l’origine – domanda assai insidiosa –  del motto “piove governo ladro”, così rappresentativo della vocazione al guizzo polemico e irrisorio del cittadino comune di fronte all’operato dei governanti di turno? Scopriremo che si motteggia a briglia sciolta senza tuttavia vantare un minimo di conoscenza a riguardo del perché e del percome si usa una determinata espressione.

Poi ci sono gli aneddoti e le “frasi famose”, quelle che inchiodano, specialmente dopo anni, alla pochezza o dabbenaggine degli autori. Qui Colombo si accanisce da par suo a denudare le numerose figure odierne che occupano la scena del potere, mostrando di esse i vezzi e i difetti, scarnificandone le conclamate aberrazioni di stile e di comportamento, per restituire un’immagine che ne sancisce le contraddizioni, gli inciampi, le improbabili esuberanze. È un quadretto piuttosto gustoso, non privo di sorprese, che in fondo agevola e allieta la lettura, senza che da ciò derivi l’abbandono di un criterio direttivo nella composizione di questo dizionario.

Infine dobbiamo fare cenno alle ricostruzioni. Chi si ricorda del “complotto dei 101”? Tanti erano i franchi tiratori che affossarono la candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica. “La sera del 18 aprile 2013 si ritrovano Renzi e i suoi. Il giorno prima si era consumato il flop di Franco Marini, candidato al Quirinale sulla base dell’accordo tra Bersani e Berlusconi…” (p. 130). Il racconto, anche questo sotto forma di viaggio nei meandri del Palazzo, ci riporta agli intrighi di quel tempo (appena sette anni fa, ma lontani anni luce e quindi cancellati dalla memoria collettiva). Sul punto Colombo aderisce alle cronache, non formula giudizi. Gli manca la “cattiveria” necessaria a stabilire, ad esempio, quanto fragile sia stata la segreteria Bersani, a prescindere dalla voglia di fare che l’ha caratterizzata. Forse ha ragione lui, perché un giornalista che analizza la politica deve sempre mantenere il giusto disincanto, per non forzare i giudizi; ma forse ha torto, perché un giornalista scrupoloso, ancorché sereno ed obiettivo, se incontra la verità lungo il suo viaggio, non può fare a meno di onorarla. 

Il torto di Colombo, se vale il paradosso, sta nel rendere comunque ossequio alla verità. Finge a se stesso quando mima l’equanime disporsi dell’intellettuale senza partito a disciplinare il giusto e l’ingiusto, sebbene l’istanza che domina, moralmente e politicamente, cancelli nel suo argomentare l’ipocrisia mascherata di equidistanza.   Nell’impastare lemmi e locuzioni ha speso molto sentimento, giostrando nel campo di fredde passioni, sì trattenute e compresse, per autentica professionalità, ma certo fino in fondo preservate dall’usura di banalità e conformismi. A chiusura del libro, Colombo ci parla del  suo archivio “totalmente desueto”, fatto di ritagli di stampa e cartelline, a cui aggiunge nella pratica, quasi ridotto a fatto puramente strumentale, l’enorme protesi del catalogo universale della Rete. Il libro, insomma, è frutto di ricerca e d’impegno, sicché nessuno può pensare che abbia il brutto crisma del pamphlet usa e getta, sfornato a botta di clic.    L’augurio, per questo, è che continui il lavoro di scavo sulla complessità della politica, nei suoi risvolti più noti e insieme nei sui aspetti più nascosti, coltivando il gusto di accompagnare i lettori sul sentiero della buona ricostruzione storica, pure con la giusta dose d’ironia.