La garbata e amichevole dialettica attorno alla “questione identitaria” che traspare tra Rete Bianca e Politica Insieme – cito per tutti gli ultimi ottimi interventi di Lucio D’Ubaldo e Giancarlo Infante – non è nuova nella vicenda politica dei cattolici italiani.
Basti pensare al confronto tra Degasperi e Dossetti.

Il mondo è cambiato rispetto al tempo di questi due grandi protagonisti della nostra storia, ma il senso fondante di quel confronto (al di là delle soluzioni che la storia ha disposto) si ripropone ancora oggi. Facciamocene una ragione. Esso fa parte integrante del nostro cammino e deve richiamarci alla logica della complementarietà. “Et et” piuttosto che “aut aut”. Lo richiedono, del resto, i “segni” del nostro tempo.
Da un lato, il valore della laicità della politica è ormai patrimonio consolidato della comunità dei credenti. Deriva dalla piena condivisione della “democrazia” e da una prospettiva ecclesiale finalmente liberata da ogni tentazione impropria, nonostante i crescenti e diffusi rigurgiti fondamentalisti della destra cattolica contro Papa Francesco.

Dall’altro, quanto accade nelle nostre società, a livello nazionale e globale, segnala come grande emergenza la questione della “ispirazione” della politica. Essa è altrimenti preda del pragmatismo effimero ed auto referenziale del potere fine a se stesso, che risponde agli interessi del più forte e nega di fatto la sua vocazione a servizio del bene comune e di chi – qui ed ora – non ha voce e rappresentanza. Nessuna delle sfide del nostro tempo (da quella ambientale a quelle sociali, demografiche e tecnologiche e perfino antropologiche) può essere affrontata da una politica priva di una bussola valoriale.

Le “identità” culturali – in naturale costante evoluzione – sono sempre più il presupposto di una buona politica, consapevole della sua “limitatezza” ed assieme della sua funzione “alta”. Dunque, identità e progetto politico declinato su un piano di laicità non sono in conflitto e non sono dissociabili. A maggior ragione oggi, se vogliamo concorrere al futuro delle nostre comunità preparando una alternativa al rischio del declino “post democratico”, tutt’altro che scongiurato.

Parlo di “identità” come riferimento – costantemente in divenire nella storia, perché non “ideologica” – ad una “cultura” sociale e politica ispirata laicamente al messaggio cristiano. Come coscienza di una eredità: quella dei movimenti sociali e politici che hanno condotto battaglie “popolari” per la affermazione dei diritti dei più deboli e per la liberazione da ogni forma di sopraffazione. Come coscienza di un “carisma”: quello di chi ricerca laicamente le vie possibili per orientare il “regno degli uomini” verso l’orizzonte del “Regno”, sapendo che le due dimensioni non possono  ontologicamente coincidere, ma impegnandosi per attenuare, con responsabilità, le antinomie che tra esse la storia degli uomini produce.

Come coscienza di una “missione”: quella di innervare la democrazia con uno spirito autenticamente comunitario e di far sì che essa sia strumento di tutela e, ove serva, di riscatto della dignità della persona, oltre ogni discriminazione e ogni rischio di emarginazione. Come coscienza, infine, di una “visione delle istituzioni pubbliche”: quella che afferma la loro grandezza, mai però a discapito del primato della società, ma anzi al suo rispettoso servizio.

“Lo Stato è, nella sua essenza, il divenire della società nella storia, secondo il suo ideale di giustizia”, scriveva Aldo Moro. Tra questa “identità” e il senso di un “progetto politico” vissuto laicamente (e condiviso, seppur in visibile e credibile autonomia, con tutte le forze di buona e convergente volontà) non vedo contrasto alcuno.  Semmai vedo, come vediamo tutti, la drammatica urgenza di aggiornate declinazioni, di nuove, competenti e coraggiose leadership, di generose disponibilità.

E vedo la necessità di “passare dalle parole ai fatti”, come bene ha scritto in questi giorni Alessandro Risso a nome della Associazione dei Popolari del Piemonte.