Articolo apparso sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Elio Guerriero

Verso la fine degli anni Sessanta lessi la Storia della Cina di Franco Martinelli che culminava con l’epopea della lunga marcia dell’armata rossa guidata da Mao. Successivamente divorai Uscita di sicurezza e L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone. Due visioni opposte del comunismo nella tensione tra grandezza e miseria, tra aspirazioni alla giustizia e repressione staliniana di ogni forma di libertà. Dopo il successo de L’avventura, peraltro, partecipai in qualche modo allo spettacolo teatrale che venne ricavato dal romanzo. 

Studiavo allora a Roma al collegio di sant’Anselmo sopra l’Aventino e qui vennero a registrare il coro di canto gregoriano che doveva servire da colonna sonora. Nacque allora il desiderio di incontrare Silone. Con incoscienza giovanile riuscii a procurarmi il suo numero di telefono e lo chiamai per chiedergli un appuntamento. Silone accettò di ricevermi a casa sua in via di Villa Ricotti al quartiere Nomentano e, nonostante la sua fama di uomo burbero e solitario, fu gentilissimo. 

Mi raccontò della sua origine, della sua grande ammirazione per don Orione di cui in Uscita di sicurezza aveva tracciato un ritratto mirabile. A mia volta gli narrai dei miei studi di teologia, dei tanti aspetti de L’avventura di un povero cristiano che sembravano vicini alle riforme auspicate dal Vaticano II. Non negò Silone questa vicinanza, al contrario mi raccontò che dopo la pubblicazione del romanzo veniva spesso invitato in istituzioni cattoliche. Ricordava poi divertito un episodio che gli era capitato qualche tempo prima. 

Chiamato a presentare L’avventura in un liceo, aveva dato il suo assenso. Quale era stata la sua sorpresa nel trovarsi di fronte un uditorio di suore, professoresse del liceo! Dal punto di osservazione del relatore con i loro abiti neri e bianchi gli erano sembrate uno stormo di rondini cinguettanti che al suo ingresso si ammutolirono rispettose. Un’altra volta, invece, era stato al centro culturale san Fedele dei padri gesuiti a Milano, invitato dall’indimenticabile padre Alessandro Scurani. Qualche critico gli rimproverò allora che, avendo iniziato con il partito comunista, aveva finito per accasarsi con i gesuiti. A sua volta replicò che se gli garantivano identica libertà di parola sarebbe ritornato volentieri anche a Mosca. 

Al primo incontro ne seguirono altri di carattere sempre più amichevole. Lui era interessato ai miei studi e mi raccomandava di studiare le minoranze religiose presenti in Italia. Io cercavo di approfondire il suo interesse per Gioacchino da Fiore, Celestino v, i frati francescani, gli spirituali che desideravano una Chiesa povera, libera dal potere e dalle ricchezze. Dietro le due figure dell’abate calabrese e del Papa che aveva fatto il grande rifiuto vi era, tuttavia, soprattutto l’utopia pacifista di Silone, la sua avversione per le manovre dei grandi che vanno sempre a danno dei poveri e dei cafoni, degli umili del Vangelo. 

Nei dialoghi tra Papa Celestino e il cardinale Caetani, il futuro Bonifacio VIII, che già tramava per succedere al Papa fraticello, emergevano le due concezioni diverse della Chiesa che si contrapponevano nel romanzo come nell’immaginario di noi studenti di teologia. Mentre Celestino trovava terribile che la Chiesa fosse organizzata come uno stato, il cardinale pensava alla Chiesa come un superstato; mentre il Papa non riconosceva altri rapporti che quelli delle anime, per il cardinale la Chiesa era un potenza che va governata con tutte le finzioni e gli accomodamenti necessari. 

Al Papa che gli confessava di credere solamente al Pater noster e al Vangelo, il cardinale rispondeva drastico: «Non si governa con il Pater noster». Fu così che, arrivato al termine degli studi, nacque in me l’idea di una tesi sullo scrittore abruzzese a partire da quella che egli chiamava l’eredità cristiana. Vi confluivano alcune tematiche emerse al concilio, così come in versione laica alcune delle utopie all’origine della rivolta degli studenti. Da una parte vi era la piena accettazione, anzi la radicalizzazione di alcune istanze cristiane, dall’altra una critica rancorosa verso la Chiesa e verso ogni forma di istituzione. L’utopia del regno di Dio veniva intesa come via per realizzare una fraternità senza regole e senza costrizioni. Cristo, secondo Celestino, non aveva portato delle nuove regole di governo, ma alcune apparenti assurdità: «Amate la povertà, amate gli umiliati e offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori, sono cose effimere, indegne di anime immortali». 

Su queste tematiche lo scrittore aveva riflettuto negli anni oscuri del suo esilio in Svizzera dove erano parimenti rifugiati scrittori ed intellettuali come Thomas Mann, Bertolt Brecht, Robert Musil, Martin Buber. Il legame più stretto era stato proprio quello con lo scrittore ebreo. Sotto il suo influsso, Silone si accostava alla Bibbia e si sforzava di trasmetterne i contenuti nei suoi romanzi, attraverso scene di vita improntate all’universo patriarcale e ascetico dei contadini. Anche gli intellettuali in rivolta tra i quali il più riuscito era Pietro Spina di Vino e pane si allontanavano per qualche tempo da questo humus ma disillusi dalla militanza politica e partitica vi ritornavano per ritrovare autentica, umile e pacifica compagnia. 

Dopo la morte dello scrittore avvenuta a Ginevra nel 1978 sono stati pubblicati alcuni scritti che testimoniano di alcuni contatti poco edificanti dello scrittore con la polizia fascista. Non è certo una storia edificante ma va ricordato che anche di questo vi era traccia in Vino e pane nella vicenda di Luigi Murica, un giovane abruzzese studente a Roma. Arrestato dalla polizia fascista perché sospettato di appartenenza al partito comunista, aveva finito per cedere davanti alle angherie dei poliziotti. In cambio della libertà, ad essi inviava dei rapporti il più possibilmente generici sull’attività clandestina. Nauseato di se stesso, era poi fuggito da Roma e si era rifugiato in Abruzzo presso la sua famiglia dove ritrovava serenità nel lavoro dei campi e nella compagnia dei cafoni. Venne infine arrestato e ucciso dalla polizia fascista. 

Basta questo a giustificare i contatti di Silone? Certamente no. Una scusa in parte plausibile potrebbe essere il suo desiderio di aiutare il fratello Romolo, l’unico parente che gli era rimasto dopo il tragico terremoto del 1915. Lo scrittore aveva forse accettato quella forma di blanda collaborazione per salvare il fratello arrestato come comunista. Questo non dovrebbe, tuttavia, gettare il discredito su un’opera che resta una testimonianza drammatica delle vicende del secolo ventesimo. Dichiarava Albert Camus in una intervista rilasciata subito dopo che gli era stato attribuito il premio Nobel: «Guardate Silone, che parla a tutta l’Europa. Se io mi sento legato a lui è perché egli è nello stesso tempo incredibilmente radicato nella sua tradizione nazionale e anche provinciale». 

La solidarietà umana, la fraternità dei poveri e la carica di millenarismo presente nella sua opera restano un lascito di rilievo.