Dopo l’audizione dell’ex premier Conte al Copasir, la sensazione che l’area del non detto sia ancora ampia, e dunque suscettibile di necessarie verifiche per conoscere la verità dei fatti, resta molto forte.  

Ci stiamo abituando alla guerra, a ciò che l’ha coadiuvata fino a ieri negli intrighi della lenta e scrupolosa preparazione? Ci rassegniamo perciò al fatalismo che abbraccia la subdola propaganda degli imbonimenti, specie se avviati e consumati nel contesto eccezionale della lotta nazionale e internazionale al Covid-19? Forse no, speriamo di no. I fatti ci confortano a sufficienza, dato che la stessa equivoca vicenda della missione russa a sostegno della sanità italiana è stata messa in queste ore sotto i riflettori. 

In effetti, vari segnali lasciano capire quanto sia crescente l’attenzione a fenomeni in altri tempi poco avvertiti dalla pubblica opinione. Stiamo in guardia come non mai, perché la guerra pressa da vicino con il suo carico di minaccia, essendo alle porte di casa nostra. 

Il sentimento di pace urta contro le dinamiche quotidiane dello scontro armato, ma non si acquieta ambiguamente nel pacifismo a tutti i costi. Finora l’Occidente ha dato prova di unità e di fermezza, sposando la causa del popolo ucraino a fronte della “operazione speciale” scatenata dalla Russia. Sono passate quattro settimane dall’invasione eppure, come titolava l’altro ieri l’Osservatore Romano, sembra un tempo “lungo un secolo”.

È accaduto, durante la fase più acuta della pandemia, che l’aiuto della Russia sia stato ben accolto in forza di una comprensibile ragione: urgeva moltiplicare gli sforzi, quali che fossero, per vincere il virus. Non che mancassero, fin dal primo momento, le preoccupazioni. Il sospetto aleggiava, sebbene fosse rimosso nella coscienza collettiva. In effetti, dietro lo slancio umanitario faceva capolino una strategia, per fare del vaccino Sputnik un’arma a disposizione di Putin. E dunque, oltre gli imperativi della scienza, premeva l’insidia di una indebita penetrazione nella sfera dei big data sanitari.

Ora, abbiamo bisogno di verità. Non è accettabile che si chiuda la collaborazione tra due Istituti, lo Spallanzani di Roma e il Gamaleya di Mosca, senza fare chiarezza sulle premesse e le conseguenze degli accordi sottoscritti. S’è peccato d’ingenuità? La verifica va fatta scrupolosamente per accertare eventuali responsabilità. Le parole dell’ambasciatore Razov, pronunciate ieri sull’onda della polemica con “La Dtampa”, sono state troppo generiche. Del resto, le reazioni intervenute a seguito dell’audizione di Conte al Copasir continuano ad alimentare dubbi e timori (nonostante le rassicurazioni del ministro Di Maio). 

Insomma, liquidare tutto con un che di fastidio, senza offrire precisi elementi di rassicurazione sulla bontà dei patti convenuti, indebolisce la credibilità delle istituzioni. Per questo, in definitiva, tanto il Governo quanto la Regione Lazio hanno il dover di dissipare la nebbia che continua ad avvolgere il caso. Bisogna farlo, e possibilmente in fretta.