Ho letto con interesse l’ultimo articolo di Giorgio Merlo a proposito di “centro trasformista”.
Se lo spazio del “centro” viene ricercato in ragione di antiche topografie di posizionamento politico, si corre in effetti il rischio inevitabile del trasformismo.
Un rischio peraltro inutile, posto che – messa in questi termini – la questione si risolve in una sanguinosa contesa per la spartizione di pochi punti percentuali di elettorato potenziale: magari spendibili, forse, nella mutevole contabilità degli attuali equilibri parlamentari, ma sostanzialmente ininfluenti nel vero processo politico.
In realtà, appunto, il “centro” che manca non è una sorta di “truppa di interposizione” tra la destra e la sinistra.

Del resto, la destra si è mangiata del tutto il “suo” centro (ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione ieri con la sconvolgente e scandalosa parata su Roma nel giorno della Repubblica) e la sinistra ha commesso l’azzardo, non riuscito, del partito unico, che doveva reinterpretare, in chiave plurale, le culture politiche riformiste e popolari del novecento e invece le ha semplicemente, tutte, archiviate e rinsecchite.

Il “centro” è esistito politicamente fino a quando non è stato “aggiuntivo”, ma capace di ispirare e contaminare con una cifra unificante (di senso sociale ed istituzionale) un progetto di governo.
Il problema non riguarda tuttavia, principalmente, le dinamiche partitiche, ma i fenomeni che hanno cambiato in profondità la struttura della domanda politica del Paese, almeno dagli anni settanta in poi.

Il “centro” che manca da allora (e dalla successiva non riuscita dello sforzo demitiano di “rinnovamento/trasformazione” della DC degli anni ottanta) è quello di una proposta organica di governo efficace, autorevole ma non autoritario, per la guida di una società complessa, frammentata, in rapido cambiamento anche antropologico.
Tutto ciò è ancor più vero oggi, di fronte a questa fase delicata ed inedita di mutazione globale e di trasformazione/svuotamento della democrazia.
Manca un progetto inclusivo capace di recuperare il valore delle Istituzioni, il senso di una democrazia comunitaria, la cifra della Politica come veicolo di giustizia sociale.
Manca una idea di come si possano ricomporre istanze e bisogni, oltre le secche della irresponsabile ricerca del consenso immediato.

Manca una visione del destino collettivo del Paese e delle sue diverse componenti generazionali, sociali, culturali e territoriali e di come esso possa inserirsi fecondamente nel progetto di una nuova Europa nella stagione del digitale, del cambiamento climatico e della crisi delle vecchie alleanze mondiali.
Principi e sensibilità che ormai si rintracciano quasi solo nel magistero istituzionale del Presidente della Repubblica e, su altro piano, in quello profetico di Papa Francesco.
Il “centro” che manca e del quale la nostra Comunità ha urgente bisogno è costituito dalla risposta culturale e politica a queste domande.

È alla costruzione di un “centro” così inteso che tutte le vecchie e nuove culture politiche democratiche devono lavorare con soluzioni inedite e coraggiose.
Ciò riguarda anche i popolari di ispirazione cattolico democratica, ai quali – per esistere politicamente – si impone il dovere di una nuova capacità di connessione con i loro “mondi vitali”, essi stessi – peraltro – spiazzati dai cambiamenti della società.
L’unica via possibile è però quella di una progetto ambizioso, nuovo, originale.
La patetica presunzione, che vedo in alcuni, di una pretesa “eredità democristiana” (lo dico da democratico cristiano, poiché questa era e resta la mia identità culturale e politica) contrasterebbe non solo con il “senso della storia”, ma anche con il “senso del pudore” e fin anche del ridicolo.

Ci sono tuttavia tanti fermenti, anche molto positivi nel nostro mondo.
Occorre metterli a frutto con saggezza e spirito di cooperazione, trovando – nella chiarezza delle intenzioni e delle ispirazioni – la giusta via comune.
Lo dobbiamo, pur nel nostro piccolo, alla grande storia alla quale apparteniamo, anche se essa non appartiene a nessuno, ma è patrimonio della Comunità.

Lo dobbiamo al nostro Paese, che non può essere consegnato ai ciarlatani di vario colore.
Lo dobbiamo all’Europa, che senza un forte e vitale patto “franco-tedesco-italiano” diventerebbe una cosa diversa da quella che i Padri Fondatori hanno immaginato e da quella che i nostri giovani hanno diritto ad avere.