E’ stato un personaggio molto interessante da decifrare, e già pochi anni fa decisi di studiarne le teorie di pensiero, scoprire i contenuti del suo impegno socio-politico. Ed è stata una piacevole sorpresa. Benché nel corso degli ultimi decenni del XX secolo sia stata redatta qualche monografia dedicata – specie riguardo le sue  iniziative giuridiche inerenti il Consiglio di Stato e la giustizia amministrativa – la storiografia risorgimentale lo ha costantemente ignorato, o ne ha sminuito la figura istituzionale. Così, finalmente, ho l’occasione di parlarne, rendendogli onore e il giusto riconoscimento.

Statalismo, legge, ordine, unità. Questi furono gli elementi che permearono la sua coscienza politica e il suo spirito identitario. Lui, patriota laureato in legge e condannato a morte per cospirazione dalla giustizia borbonica nel lontano 1849, subì un processo durato trentasei mesi. La pena, commutata in ergastolo, la scontò per gran parte a Santo Stefano, al largo di Ponza, dove continuò a studiare maturando i suoi principi ideali, che avrebbe trasposto nella concezione ligia di giustizia, nel senso delle istituzioni, nel nome di un costituzionalismo rigido ma ispirato a una filosofia sostenitrice della rappresentanza parlamentare. Così si presentò l’abruzzese Silvio Spaventa nel panorama politico dell’Italia unificata. A seguito della ennesima condanna, quella relativa all’esilio perpetuo, nel 1859 approdò in Irlanda e attese forzatamente gli eventi italiani, confluiti nelle “primavere” del 1859-60 e poi nell’Unità.

Tornato a Torino, con la benedizione di Cavour si recò a Napoli dove trattò affinché i vecchi poteri raggiungessero un accordo con il fine ultimo di inglobare pacificamente l’ex Regno dei Borbone nell’Italia monarchica. In aperto contrasto con Garibaldi, che non riconosceva come reggente dei nuovi ordini costituiti, nel novembre del ’60 assunse la carica di Ministro di Polizia del governo luogotenenziale (e provvisorio) napoletano, ricoprendo l’incarico di riportare ordine e legalità. Impresa difficilissima, per non dire disperata.

Animato da un materialismo di stampo hegeliano e da buon giurista qual era, mise immediatamente mano alla legislazione amministrativa e penale dando luogo a una sfida alla criminalità senza precedenti. Napoli, soprattutto nel periodo pre-unitario, in cui il vuoto di attribuzioni intercorso tra l’abdicazione di Francesco II e la dittatura provvisoria stava provocando un’ondata di illegalità e malaffare gigantesca, si era trasformata in un porto franco, o meglio, nell’anello debole del nuovo Regno. Un habitat in cui la criminalità non era più impersonata dal retrivo brigantaggio antiunitario o da diseredati che facevano degli abusi il loro motivo di vita, bensì da una fitta rete di fuorilegge raccolti in associazione che già allora poteva definirsi con un sostantivo tanto appropriato quanto attuale: mafia, o camorra. Spaventa, di fronte a una simile condizione, non fu sic et simpliciter il fautore per eccellenza del ripristino della  legalità, bensì un personaggio che aveva deciso di estirpare il fenomeno alle sue radici (un po’ come avrebbero tentato di fare un secolo dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) mettendo mano ai codici con lucidità e pragmatismo. L’obiettivo primo era di stroncare alla base quelle forme di attività illecita e sovversiva che si stavano facendo sempre più raffinate e capillari, ma soprattutto, conniventi con la parte corrotta delle istituzioni.

Nel tormentato Mezzogiorno, presso i luoghi che richiedevano un intervento di polizia urgente, fonti di povertà diffusa, disoccupazione e malcontento popolare, l’aspettativa di vita si aggirava intorno ai trent’anni di età. E’ proprio in quell’humus civis annichilito da secoli di miseria e disuguaglianza sociale che il crimine si organizzò a difesa dei propri interessi, caratterizzati da forme ultra-moderne di malaffare: contrabbando, prostituzione, pizzo, estorsione, coercizione e omicidi su commissione. Tutto era controllato all’origine da guappi o da capi-rione di turno spesso manovrati a loro volta da reclusi ed ergastolani rinchiusi nelle patrie galere meridionali. Fu grazie al neo “Ministro di ferro” che il codice penale italiano, ex-novo, estese alcune leggi – sino a quel periodo applicate in prevalenza al brigantaggio – anche alla criminalità organizzata dell’hinterland napoletano e del decaduto Regno delle Due Sicilie. Null’altro si trattava che di una Legge Pica in embrione, la numero 1409 dell’agosto 1863.

Spaventa si orientò nell’attività di prevenzione, oltre che di repressione; chiese e ottenne l’applicazione del domicilio coatto per quanti fossero accusati dei reati di mafia e associazione per delinquere, il che diede luogo non solo a vaste operazioni di polizia, ma anche a riformare alcuni pacchetti di giustizia, i quali avrebbero mantenuto le stesse prerogative per la buona parte del Novecento. Emblema dell’impegno di Spaventa fu la epica retata compiuta a Napoli dai carabinieri e dalla guardia nazionale il 16 novembre 1860, per cui vennero mobilitati interi reparti di uomini e che portò all’arresto, nel giro di un giorno, più di cento mafiosi accusati per la maggioranza di contrabbando e traffici illeciti.

Come spesso accade ai nostri giorni, anche allora, grazie alle “intercettazioni” del tempo e alle delazioni,  il funzionario teatino fu “promosso” e passato di grado in virtù di uno scandalo nel quale venne tirato in ballo: l’assunzione presso i Servizi delle Poste di un soggetto accusato di omicidio, e che, si sospettava, avesse ottenuto il posto di lavoro proprio grazie alla intercessione dello stesso Spaventa. Sfuggito a un attentato il 24 aprile 1861 a seguito della stesura di nuove disposizioni di legge (segno che la sua politica stava colpendo nel segno), nell’estate successiva fu costretto alle dimissioni. Spedito a Torino e nominato Vice-Ministro degli Interni  a fianco di Marco Minghetti, divenne uno dei politici più brillanti della Destra Storica, suo gruppo di appartenenza. Al suo posto a Napoli arrivò il generale Enrico Cialdini – non proprio una mente raffinata – il quale riprese il pugno duro contro il brigantaggio allentando di fatto la pressione sul fenomeno mafioso, che dilagò in tutto il Sud Italia con metodi sempre più ricercati e sempre più destabilizzanti.