Il declino (inesorabile) dei moderati in Europa

I sondaggi valgono quel che valgono, ma la previsione di un calo di sette punti percentuali, dal 32 al 25 % del Ppe alle prossime elezioni europee, non appare infondata.

Il recente tonfo elettorale della CDU in Assia (e prima ancora della CSU in Baviera) e l’addio alla politica di Angela Merkel nel 2021, non è che l’ultimo tassello che rischia di buttare giù l’intero edificio dei partiti moderati, popolari, centristi, su cui si è retto l’equilibrio politico europeo, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. In Italia il 4 marzo ha consegnato il governo del Paese nelle mani dei giallo-verdi e il centro-destra è ormai a trazione leghista. In Europa sono anni che il moderatismo non sta bene. Siamo a un bivio della storia. Quello delle prossime elezioni europee, nel maggio 2019, rischia davvero di essere fatale per i partiti di centro, così come li abbiamo conosciuti.

In Austria il Partito popolare viene umiliato con l’esclusione dal ballottaggio presidenziale che vede contrapporsi un esponente dei Verdi contro quello dell’estrema destra, battaglia giocata sul filo dell’ultimo voto, tra polemiche e accuse di brogli. Solo il suo affidarsi a un giovane leader estremista ha permesso all’Ovp di risalire la china, ma al prezzo di consegnarsi a un governo fortemente condizionato dagli alleati della destra più oltranzista. In Francia la disfatta del candidato Fillon, screditato dopo la scoperta di contributi pubblici fatti affluire di nascosto alla moglie, ha messo ai margini la destra repubblicana, schiacciata dalla tenaglia dal sovranismo di Marine Le Pen a destra, e dall’altra parte dal movimentismo moderno e spregiudicato di Emmanuel Macron: un cataclisma che rischia di fare il paio con la virtuale scomparsa del Partito socialista. In Grecia la catastrofe di Nuova Repubblica, che ancora nel 2007 poteva contare sul 41 % del leader Kostas Karamanlis, poi, minacciato alla sua destra dalla crescita di Alba dorata, destinato alla disintegrazione nello scontro diretto con Tsipras, che aveva a sua volta cannibalizzato i socialisti del Pasok.

In Olanda, dove soltanto la paura per il previsto trionfo dei populisti di Geert Wilders ha rallentato la decisa discesa del liberal-democratico Mark Rutte, peraltro costretto ad indossare in pubblico una maschera anti-immigrati. In Svezia i moderati non hanno saputo approfittare della crisi dei socialdemocratici e si sono adattati al ruolo di ruota di scorta dell’estremismo di destra. In Ungheria i Popolari si sono consegnati al teorico della democrazia illiberale Orban. E sono note le traversie dei conservatori inglesi, il polo moderato per eccellenza nella storia della democrazia europea, che hanno vinto di un soffio anche con un Partito laburista schiacciato sul massimalismo di Jeremy Corbin, con i populisti di Nigel Farage tagliati fuori dalla corsa per il Parlamento di Westminster, ma tutt’altro che cancellati in quella per il Parlamento di Strasburgo, con una base sedotta (e forse pentita) dalle sirene della Brexit e Teresa May sfidata alla sua destra dalle esuberanze di Boris Johnson.

I sondaggi valgono quel che valgono, ma la previsione di un calo di sette punti percentuali, dal 32 al 25 % del Ppe alle prossime elezioni europee, non appare infondata. E se si somma alla discesa dei Popolari il probabile tracollo dei socialisti europei, non sembra così peregrina la possibilità che i due partiti storici dell’Europa del Dopoguerra possano raggiungere a fatica il 50%. E l’altra metà? L’altra metà tende sempre più a non riconoscersi nelle famiglie politiche che hanno dato ordine, respiro, benessere ad un continente europeo uscito distrutto dalla Seconda guerra mondiale. L’altra metà si è rifugiata nell’antipolitica e finché i partiti storici non capiranno che il terremoto elettorale rischia di spazzarli via dal quadro politico, il loro destino rischia di essere quello di una progressiva estinzione.