la Cassazione ha messo una pietra tombale sul “teorema Pignatone”, negando l’esistenza di un metodo mafioso nel tipo di presenza e organizzazione della criminalità romana facente capo a Buzzi e Carminati. Da ciò si evince che il danno d’immagine recato alla capitale in questi anni è davvero incalcolabile. Fiumi d’inchiostro e inchieste televisive e letteratura civile, in un profluvio di odio e amore verso la Città Eterna, sebbene in questo caso, a dire il vero, abbia agito molto più l’odio che l’amore, hanno decretato arbitrariamente l’ennesima certificazione storica della immoralità di Roma. Molti giudici pretenziosi, con i loro manuali di retorica sul degrado della città, si sono impancati a nuovi Lutero contro la sempre “nuova Babilonia”. Non solo le istituzioni e la politica hanno subito un attacco micidiale, ma anche la struttura civica romana è stata ricoperta dal sospetto, se non dall’insulto rivestito di arroganza.

È colpa di Pignatone, dunque, lo scatenamento della canea antiromana? Assolutamente no. Al Capo della Procura, oggi in servizio presso il Vaticano, va il merito di un’indagine coraggiosa e scrupolosa. I reati contestati, al di là del 416 bis, hanno trovato riscontro nelle sentenze emesse in primo grado e poi, con forti riduzioni di pene, in appello. C’era il marcio nei gangli della vita amministrativa e l’azione della magistratura ha permesso di svelarne tutta la pericolosa consistenza. Chi ha sbagliato, uscendo con le ossa rotte da una vicenda tanto clamorosa, è stato piuttosto il “partito della moralità”; sfruttando l’occasione, con grande spregiudicatezza, gli esponenti di tale anomalo partito, per sua natura trasversale, hanno cercato di redigere a tavolino la mappa dei buoni e dei cattivi. Sulla moralità si è edificata la proposta di un ceto politico avventizio, con i risultati che oggi risplendono sotto gli occhi della pubblica opinione.

Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, ha rilevato che il discorso sulla rinascita di Roma, oggi evidentemente circonfuso di luce ancor più forte, esige una risposta all’interrogativo principale: chi può assolvere a questa funzione di riscatto? Chi è il soggetto collettivo di un’impresa così ardua, quasi prossima alla fatica improduttiva del vaniloquio, eppure al tempo stesso così corposamente necessaria? Il sociologo ci ricorda, in sostanza, quanto vacua e sfuggente sia la nozione di classe dirigente nello specifico contesto romano. Del resto la fragilità della borghesia romana – l’antico generone degli arricchiti in competizione con l’aristocrazia quirita – è metafora di un’Italia invertebrata, senza dubbio immeserita dal tracollo dei grandi partiti di massa e preda di sconci intrighi di poteri sovranazionali. Uscire da un declassamento che soverchia qualsiasi downgrading alla  Moody’s, dal momento che attiene al discorso sulla tenuta spirituale e politica del Paese, non sarà facile. 

Mafia capitale è stata la riprova di quanto possa incidere il fremito incontrollato del moralismo, parente stretto e finanche gemello di ogni populismo. Da oggi Roma torna a soffrire delle stesse pene e degli stessi problemi che l’accusa di mafiosità aveva accartocciato in una indistinta e gravosa espressione di condanna. S’affaccia tuttavia la speranza che la lezione sottostante al caso giudiziario abbia come effetto di rinculo un soprassalto di consapevolezza critica, anche in rapporto alla rumorosa evanescenza di partiti senza identità e senza progetto, dando alla città la forza di riprendere a pensare il suo futuro. Per questo, mettendo da parte gli indugi, bisogna fare in modo che l’energia di una nuova élite democratica funga da motore di una politica ricostruttiva, tanto per la capitale quanto per la nazione, con lo slancio generoso di cui si avvale l’autentica passione per il bene della propria comunità.