Il dilemma che incombe sulla coscienza degli Europei: quanta sofferenza si è disposti a sopportare?

 

Ci è chiaro che per sconfiggere Putin dovremo resistere a lungo, non per poco tempo, alla carenza di energia e forse anche alla disinformazione via social che promanerà da Mosca, come già sta cominciando ad accadere. Ciò influenzerà un crescente numero di persone che comincerà a dire che non vale certo la pena di “morire” economicamente per l’Ucraina e che forse Putin non ha proprio tutti i torti.

 

Enrico Farinone

 

Nel corso di queste drammatiche settimane di guerra in Ucraina tutti noi siamo sommersi da analisi e valutazioni geopolitiche e senz’altro chi ha voluto documentarsi con una certa serietà ha avuto la possibilità di saperne un po’ di più di quanto ne sapesse prima dell’inizio del conflitto.

 

Le immagini televisive colte sul campo dagli inviati delle diverse testate e dai giornalisti freelance hanno per parte loro documentato frammenti – solo frammenti, ma più che sufficienti per farsi un’idea di quali orrori generi una guerra – di vita vissuta da esseri umani terrorizzati dalle sirene d’allarme, dal fragore delle armi, dal sordo rimbombo delle bombe sganciate dall’altro, dal sibilo mortale portato da missili appuntiti e veloci.

 

Le analisi con le parole rappresenterebbero ben poca cosa se ad esse non potessimo sovrapporre la visione della realtà sul terreno. È quest’ultima che illumina in tutta la sua verità l’invocazione alla pace di Papa Francesco e la conseguente netta condanna di ogni armamento e di ogni riarmo. Resta naturalmente la realtà di un aggressore e di un aggredito, una verità che non può lasciare indifferenti. E che ha generato presso l’occidente europeo, oltre a un doveroso moto di solidarietà assistenziale nei confronti del secondo, due ordini di decisioni: quella di fornire armamenti (ancorché “difensivi”: ma quale arma non è di per sé, invece, “offensiva” della vita?) al governo di Kiev. E quella di porre in essere sanzioni economico-finanziarie nei confronti del primo, l’aggressore russo.

 

Entrambe le scelte hanno progressivamente aperto un dibattito, prima marginale ma via via più insistito, sulla loro opportunità e validità nel tempo. Riflessioni anche necessarie e dovute. Purtroppo, come troppo spesso ormai accade, “sporcate” dalla polemica spicciola creata da talk show televisivi perennemente volti a cercare audience tramite la ricerca di personaggi improbabili che assumono transitoriamente visibilità mediatica poi amplificata dalla banalizzazione social quanto più espongono teorie e opinioni fuori da qualsivoglia oggettivazione, scientifica o politica o d’altra natura a seconda del tema trattato. Depurata però da questa purtroppo insopprimibile e debordante spettacolarizzazione che non risparmia neppure un evento tanto tragico intriso di tante sofferenze come è una guerra, la riflessione su queste scelte compiute dagli europei è opportuna.

 

Non intendo e non posso ora qui sviluppare una mia personale riflessione al proposito. Però vorrei almeno porre due questioni, che al fondo nessuno di noi può eludere. E che – ciò è più preoccupante – se le cose dovessero proseguire ancora a lungo (come è a questo punto più che possibile, se non addirittura probabile) nessuno di noi potrà più eludere.

 

Sulle armi. Aiutare gli aggrediti è doveroso. Dobbiamo però essere consapevoli che gli armamenti portano violenza e morte. Essi arricchiscono i loro costruttori e commercianti, impoveriscono tutti gli altri. Uno degli esiti di questa guerra voluta da Putin sarà giustappunto l’esplosione della spesa in armamenti nel mondo. Le conseguenze saranno minori risorse dedicate alla lotta alla povertà, alle malattie incluso il Covid, all’investimento educativo e professionale…

 

Sulle sanzioni. La propaganda russa sostiene che esse serviranno solo a cementare ancor più il popolo intorno alla sua guida politica. Nel breve è senz’altro così. Sul medio-lungo qualcosa potrebbe anche cambiare. Non per caso l’apparato repressivo legislativamente garantito è stato da ultimo ulteriormente rafforzato. Ma le sanzioni “auto-colpiranno” anche gli europei. E non solo sotto il profilo del “confort” personale, dall’aria condizionata ai termosifoni invernali. Ma pure sotto quello produttivo, con le conseguenze occupazionali conseguenti. Il pericolo recessivo è alto e reale. (Solo la fine delle ostilità potrà farlo svanire). Ecco, questo è il punto.

 

Siamo tutti pronti al crollo o comunque alla significativa riduzione del nostro benessere a causa di una guerra ai nostri confini? Tutti noi che non abbiamo mai vissuto direttamente una guerra? Tutti noi immersi da decenni nel mito e nella pratica attiva del consumismo, della vita agiata declinata al materiale e (quasi) per nulla più allo spirituale, al valoriale, all’ideale? Ciò che invece le generazioni a noi precedenti avevano ben chiaro, e inscritto nella loro formazione culturale instillata dal vissuto quotidiano dei loro padri, delle loro madri. Lo siamo?

 

Oggi c’è una parola che va di moda, e che per ciò stesso io non amo particolarmente. Gli europei sapranno affrontare questi nuovi tempi con la “resilienza” necessaria? Ci è chiaro che per sconfiggere Putin su questo piano dovremo resistere a lungo, non per poco tempo, alla carenza di energia e forse anche alla disinformazione via social che promanerà da Mosca, come già sta cominciando ad accadere, influenzando un crescente numero di persone che comincerà a dire che non vale certo la pena di “morire” economicamente per l’Ucraina e che forse Putin non ha proprio tutti i torti?

 

È stato giustamente detto che oggigiorno “la potenza geopolitica non è determinata da quanta forza economica si può mettere in campo, ma da quanta sofferenza si riesce a sopportare”. Quanta sofferenza siamo disposti a sopportare?