La pandemia ha potenziato il dibattito, sempre ricorrente, sulle prospettive del Servizio sanitario nazionale, servendo anche a ricordarne l’importanza e ad ammonirci contro i rischi della sua destrutturazione. L’autore, già Ministro della Salute nel Governo Monti, fornisce alcune indicazioni per individuare gli aspetti più importanti e delicati a riguardo dei rapporti tra sanità pubblica e regionalismo. Di seguito riportiamo le conclusioni del contributo a suo tempo  pubblicato sulla rivista BioLaw Journal ( 4/2021).

A mo’ di rassegna sintetica riepilogativa, proviamo a elencare alcune cose da non pensare o da non fare e alcune cose da pensare e da fare.

Come si è visto, è importante non pensare che la radice delle disfunzioni siano il nuovo Titolo V della Costituzione (che in sanità non ha innovato, salvo l’art. 127 e l’art. 116, comma 3) o la regionalizzazione conseguente ai decreti di riordino del 1992-1993 (e l’art. 117 del d.lgs. n. 118/1998). Consideriamo per contro, tra i poteri esercitabili dal livello statale: il decreto-legge, i poteri sostitutivi, l’attrazione in sus- sidiarietà, le non poche clausole che prevedono e consentono espressamente la graduazione delle ga- ranzie delle libertà e dei diritti rispetto ad esigenze di incolumità e sanità pubblica (artt. 14, 16, 17, 41), nonché, da ultimo, riflettiamo a quanto deciso da Corte cost., sent. n. 37 del 2021, red. Barbera.

Per contro, è importante pensare:

  1. a) che sia necessario disporre di reali e condivisi standard ospedalieri e territoriali, che garantiscano

la distribuzione dei posti letto di terapia intensiva, incentivando la capacità di fare rete all’interno

del Ssn, in cui la mobilità è elemento costitutivo e non fattore distorsivo;

  1. b) che parimenti sia necessario collegare la richiesta di potenziamento quantitativo del personale del Ssn con la verifica circa la sua distribuzione secondo il principio che i professionisti seguono i ser-

vizi, e non l’inverso;

  1. c) che sia determinante allenarsi a parlare di “produzione” di salute e non di prestazioni sanitarie (più

salute, meno prestazioni di cura e riabilitazione, più prevenzione), nella logica dei Lea (necessari e appropriati), sottolineando che, nel sistema delle regole vigenti in tema di Ssn, aziendalizzazione è cosa diversa da economicismo;

  1. d) che la mitica “sostenibilità” vada intesa, secondo un celebre rapporto canadese di oltre quindici anni fa, nel senso che il sistema è tanto sostenibile quanto vogliamo che sia.

Quanto al “fare”, possiamo utilmente:

  1. a) non tanto richiedere più poteri al centro, ma esprimere più capacità di esercitarli, cioè più coordi-

namento da parte del livello centrale, nel senso tuttavia di un coordinamento forte, che sappia controllare l’attuazione degli standard ospedalieri, ad es. per quanto attiene al rispetto dei para- metri cui sono soggette le reti di impresa private in sanità ai sensi del d.m. 70, o per quanto attiene al rispetto delle regole sull’intramoenia approvate nel 2012;

  1. b) praticare e non soltanto declamare più integrazione sociosanitaria, non fallendo l’occasione delle cosiddette Case della comunità;
  2. c) praticare più cittadinanza sanitaria (contro le derive “illiberali” delle democrazie);
  3. d) prestare la dovuta attenzione all’appropriatezza e alla valorizzazione dei determinanti non sanitari

della salute.

L’elenco naturalmente potrebbe continuare, ma rischierebbe di fare venire meno l’obiettivo di queste poche pagine: individuare alcune pietre miliari suscettibili di una larga condivisione, così che il dibattito sui temi sanitari non sia il palcoscenico dove declamare le proprie frustrazioni, ma l’occasione per una sempre maggiore coesione all’interno del nostro Paese.