Il discorso su destra e sinistra è obsoleto. E il centro, come può non esserlo? Altro è difendere i “nostri” valori…

 

Non bisogna inseguire le illusioni ottiche. Se il centro politico cattolico per gli anni 2000 si vuole distinguere capovolgendo la “Fratelli Tutti” in “Fratelli Pochi”, e così identificare i suoi valori e principi politici con quelli inviolabili della Chiesa cattolica, è padronissimo di farlo. Ben sapendo dei pericoli di integralismo tradizionalista e conservatore che corre, mostrandosi ignaro della secolarizzazione galoppante. Salvare i valori del cattolicissimo democratico vuol dire, più che mai, sottomettersi a un notevole sforzo culturale, e solo culturale, per non farli disperderli.

 

Nino Labate

 

Guardando all’anno appena concluso, devo per forza rivolgere il pensiero ad alcuni stimati amici che non hanno perso l’occasione di battere il chiodo del “Centro politico”,  sempre partendo dai nobili valori del cattolicesimo democratico e popolare, se non addirittura dalla storica DC; spesso prendendo le mosse dal centrismo, antropologico e politico, presente di fatto nella dimensione locale e comunale; qualche volta perché incomprensibilmente allarmati dai pericolosi “opposti estremismi”, posizionati nei poli antiliberali, antidemocratici e populisti, presenti in Italia.

 

La dimensione locale

 

La famiglia, lo spazio locale, il nostro piccolo o grande comune di nascita, il nostro vicinato, il rione e il quartiere dove abbiamo giocato da ragazzi, sono quelle dimensioni sociali ed esistenziali di base che lasciano un segno per tutta la vita. Anche se non ce ne rendiamo conto, i mondi locali della nostra infanzia e della nostra fanciullezza, quelli vitali della nostra prima socializzazione, rappresentano le pietre angolari del nostro orizzonte cognitivo. La realtà  intorno a noi però cambia. Cambia col tempo. E cambia con la storia. Dobbiamo allora  avere solo la pazienza (e la sapienza) di ritarare costantemente il nostro modo di pensare, i nostri pregiudizi, il nostro atteggiamento nel  valutare le cose, tenendo la barra sempre dritta verso alcuni valori senza tempo, e ben sapendo che “…quando si è  bambini si parla, si pensa e si ragiona da bambino, e quando si diventa grandi, si elimina tutto”. Dunque, lasciamoci trasformare rinnovando il modo di pensare, ci raccomanda San Paolo.

 

Senza perciò evocare il trito e ritrito  trasformismo,  sempre semplificato e identificato col camaleonte che guarda al proprio tornaconto, la storia di questi cambiamenti di opinioni e delle nostre visioni del mondo, ci suggerisce e ci  insegna anche qualcosa di positivo. La dimensione locale è utile e serve. Sappiamo ormai, però, che le rivoluzioni epocali provocati dal gas serra e dalle trasformazioni climatiche, dal 5G, dalle inevitabili ondate di emigranti bloccati al semaforo rosso, e dalle progressive diseguaglianze in forte movimento al semaforo verde, non li risolve il sindaco di Cefalù o di Casalpusterlengo. E neanche il Comitato di quartiere sotto casa nostra, con le premure e gli affanni per la fontanella in piazza. Sono problemi che si risolvono rimanendo insieme e tutti uniti, a partire dalla dimensione locale, nazionale, sovranazionale, europea, e addirittura di governance mondiale, cedendo autonomia e  sovranità; oppure essi rimangono, con il loro carico di problematicità, senza soluzioni.

 

In questo indispensabile lavoro per il futuro che ci attende,  dobbiamo solo stare attenti a quelle élite neoliberiste che con i loro monopoli mondiali possono pilotare  silenziosamente dall’alto queste “rivoluzioni”, giocando tutto sull’individuo e sulle metodologie del liberismo di vecchia scuola viennese che lo esaltano, quindi sul libero e autonomo mercato, senza avere lo Stato di mezzo. Naturalmente in questo discorso è compreso il mercato finanziario controllato da quell’1% di supericchi che gestisce  le banche  del mondo. Ebbne, lasciamo questo ultraliberismo centralizzato al suo destino. Lo sforzo da compiere riguarda le attenzioni rivolte a quel futuro sconosciuto che ci attende, per altro già iniziato da tempo, guardando lontano dai nostri spazi di vita locali, dai nostri desideri politici, dai nostri convincimenti, ed evitando così quelle divisioni che nascono dalla nostalgia e dal rimpianto di passati gloriosi, senza nessuna possibilità di ritorno.

 

Il paradosso dei nostri giorni

 

Se facciamo questo sforzo, non si fa allora molta fatica a notare un paradosso dell’attuale paesaggio politico italiano. Quello che in piena pandemia “universale” – che nel rispetto della diversità dovrebbe spingere a risposte univoche, e sollecitare coesioni, solidarietà, e interpretazioni unitarie della realtà, scommettendo anche sulla scienza-tecnica – si avvertono invece incomprensiii sollecitazioni e desideri di essere a tutti i costi diversi e di rimanere slegati. Ciò attiene ad alcuni Stati che scelgono l’autonomia antieuropeista, con il filo spinato, sino ad alcuni partiti, nei diversi Stati, che prediligono la strada solitaria. Partiti, questi ultimi, quasi mai originali, ma sempre ripetitivi sui grandi valori dei diritti umani e  della democrazia politica liberale. Con la voglia di distinguersi lo stesso. Disuniti e sovrani sin dal proprio stato, dal proprio partito politico e dalla propria corrente partitica; ma soprattutto nel proprio ideologico spazio politico orizzontale, di centro o destra o sinistra che sia. Categorie, queste, da abbandonare perché non più utili e significative, ma che invece ancora oggi suggeriscono contrapposizioni ideologiche assieme a  bisogni inspiegabili di essere diversi, convinti anche da un certo narcisismo caratteristico di quei tanti leader che poi, grazie ai media vecchi e nuovi, hanno affossato i loro partiti.

 

Il localismo e il locale: il pluralismo finto delle superfici

 

A questa miopia, pervicace e preoccupante, fa compagnia un abbaglio sociologico, ormai diventato un vero vizio; che è quello, poi, di valutare la sfera politica rimanendo sempre in superficie. Partendo cioè  sempre dal  leader, dalla classe dirigente nazionale e locale di un partito, senza nessuna attenzione ai contesti e alla storia, come ci aveva raccomandato don Luigi Sturzo circa 100 anni fa. E, aggiungo, soprassedendo alla domanda politica che sale dal basso, ovvero sulla composizione dell’elettorato e sulle sue scelte. Nelle ultime elezioni il 46% della classe operaia ha votato Lega e M5s, il 10% Fratelli d’Italia. Il 30% degli assidui praticanti la Messa domenicale ha votato M5S, il 22% Pd, il 16% F.I., e il 15% Lega, nonostante il Vangelo e il Crocefisso di Salvini. Tutti dati che pur nella loro non matematica certezza, vengono trascurati.

 

Capita che non si prenda in esame neanche la fluidità del voto, anche quando si viene a sapere che tra il 15 e 20% del vechio voto Pd si trova ora collocato nel M5s, il cui profilo, ci dice il Cattaneo, scuote alcuni consolidati stereotipi: è  (o era?) un elettorato formato per il 56,9% da operai e liberi professionisti (esattamente 29,5 % operai, e 27,4  liberi professionisti); dal 39,7% da credenti non partecipanti e praticanti (anche qui, per l’esattezza, 24,4% sono i credenti non partecipanti, e il  15,3% di  praticanti). E per finire, che  il 34,5% di quel voto proviene da Pd e Idv. La domanda allora è: quando si parla di partito di centro a quale elettorato ci si riferisce e, dove si troverebbe  collocato ora questo elettorato? La solita risposta è consistita nel dire che questo elettorato è rimasto costantemente a casa, in pantofole, e che solo grazie a un sistema elettorale proporzionale può tornare ad uscire di casa.

 

C’è comunque, di là di queste osservazioni finanche banali, una lezione da trarre: il pluralismo autentico non è mai un pluralismo di superficie e di desideri. Non è un pluralismo fotocopia. E va anche da sé che un microsovranismo partitico non è oggi la piu persuasiva risposta al vivere insieme e al sentirci “Fratelli tutti”, imbarcati cioè sulla stessa barca, di fronte agli tsunami che ci attendono. Guardare al granellino di sabbia e chiudere gli occhi sulla montagna di sabbia di cui è parte, non è mai stata una scelta ragionevole e un segno di autentico pluralismo.

 

Conclusioni

 

Le conclusioni di questo appunto sono molto semplici. Almeno per me. Sono convinto che il mondialismo non è ( più e  solo ) una utopia cristiana. E gli obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, scrutando bene con attenzione, non sono più caratteristici unicamente della cosiddetta sinistra. Cosi come la dimensione locale dei nostri mondi vitali giornalieri, quella nazionale e quella sovranazionale europea, come pure quella globale che ci aspetta dietro l’angolo, non sono antitetiche e tra di loro  conflittuali. O, almeno, non lo potranno essere. Sono solo diverse per le dimensioni quantitative, ma non per quelle qualitative.

In sostanza, ho seguito come ho potuto l’interessante dibattito sulla RI-nascita di un “Centro” politico Italiano. Con attenzione e rispetto. Un Centro diverse volte identificato con il radicamento territoriale e l’attenzione per le istanze locali, come ho detto. Spesso, questo dibattito, appare comunque rivolto agli ultrasessantenni, perché immaginato e desiderato come luogo della vecchia Dc: nel migliore dei casi degli alti valori del cattolicesimo democratico. Un qualcosa, nel profondo, quasi sempre da “RI-comporre e Ri-costruire, con quel prefisso teso a duplicare la stessa cosa guardando però al passato, e quasi mai da “Comporre e Costruire ex novo“, guardando al   futuro,  come raccomanda Mattarella .

 

Ecco, forse a motivo del fatto che sono da tempo convinto che le categorie politiche di destra, centro e sinistra non servano più in quanto obsolete, non ho mai confuso questi spazi geometrici di tipo orizzontale con quelli dell’uguaglianza, vale a dire con quelli verticali, tra gli “alti” e i “bassi”, tra i primi e gli ultimi, tra i ricchi e i poveri, che una autentica democrazia liberale sociale e solidale, di stampo keynesiano, con al centro la persona, deve o dovrebbe tutelare. Se il centro politico cattolico che si auspica per gli anni 2000 si vuole distinguere capovolgendo la “Fratelli Tutti” in “Fratelli Pochi”, e così identificare i suoi valori e principi politici con quelli inviolabili della Chiesa cattolica, è padronissimo di farlo. Ben sapendo dei pericoli di integralismo tradizionalista e conservatore che corre,  mostrandosi ignaro della secolarizzazione galoppante. E in più sapendo di un Papa come Bergoglio, che attraverso un Sinodo sollecita i suoi cardinali, i suoi vescovi, i sacerdoti e i laici, a uscire dalle parrocchie e a guardare con attenzione le “metamorfosi” sociali, ambientali e culturali del mondo, affiancando alla irrinunciabile spiritualita della Chiesa il segno dei tempi.

 

Se invece i sostenitori del “Centro” intendono verificare quanti valori della Dottrina sociale della Chiesa si trovano oggi depositati nella nostra Costituzione, e quanti di questi valori sono stati fatti propri dalle socialdemocrazie liberali del mondo, non devono fare altro che immergersi nella realtà, non solo politica, e osservarla attentamente senza pregiudizi. Il cattolicesimo democratico e popolare è ancora testimone di un patrimonio di valori che necessitano di non essere dispersi. È vero, senza dubbio! Quello che però serve è solo un notevole sforzo culturale, e solo culturale, per non farli disperderli. Non altro.