Lungamente atteso – specie da coloro che il Presidente De Rita definisce “amici della cultura CENSIS” ma anche dalla politica e dalle istituzioni– è stato pubblicato il 53° Rapporto sulla società italiana, ispirato a quel cimento del continuismo analitico, descrittivo e propositivo a cui l’Istituto si è sempre attenuto dal dopoguerra ad oggi, pur in una esponenzialmente accentuata deriva di frammentazioni e discontinuità.
Il Rapporto affronta subito il tema dominante: descrivere il presente per cogliere le evidenze sociali, economiche, politiche, emotive, individuali e collettive immaginando i contorni di un futuro possibile ma ancora vuoto di contenuti rassicuranti, e definisce entrambi “incerti”: “ così è per gli italiani il presente e così è il futuro percepito. Pensando al domani, il 69% dei cittadini dichiara di provare incertezza, il 17,2% pessimismo e il 13,8% ottimismo, con i pesi relativi di questi ultimi due stati d’animo quasi equivalenti, che finiscono per neutralizzarsi”.

“Oggi il 69% degli italiani è convinto che la mobilità sociale è bloccata; il 63,3% degli operai crede che in futuro resterà fermo nell’attuale condizione socio-economica, perché è difficile salire nella scala sociale; il 63,9% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme invece la scivolata in basso. Inoltre, il 38,2% degli italiani è convinto che nel futuro i figli o i nipoti staranno peggio di loro, il 21,4% non sa bene che cosa accadrà e solo il 21% pensa che staranno meglio di loro (mentre) il ceto medio (43%), dagli impiegati agli insegnanti, è più persuaso che figli e nipoti staranno peggio.

È una convinzione radicata nella “pancia” sociale del Paese che genera uno stress esistenziale, intimo, logorante, perché legato al rapporto di ciascuno con il proprio futuro, che amplifica la già elevata tensione indotta dai tanti deficit sperimentati quotidianamente e si manifesta con sintomi evidenti in una sorta di sindrome da stress post-traumatico: il 74,2% degli italiani dichiara di essersi sentito nel corso dell’anno molto stressato per la famiglia, il lavoro, le relazioni o anche senza un motivo preciso; al 54,9% è capitato talvolta di parlare da solo (in auto, in casa, ecc.); e per il 68,6% l’Italia è un Paese in ansia (il dato sale al 76,3% tra chi appartiene al ceto popolare); del resto, nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi (misurato in dosi giornaliere per 1.000 abitanti) è aumentato del 23,1% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni (800.000 in più dal 2015). La pressione che ne deriva è socialmente vissuta come un vero e proprio tradimento, che si aggiunge alle due promesse mancate del recente passato: l’annunciata ‒ e mai arrivata ‒ ripresa e il non pervenuto rinnovamento in meglio. Così gli italiani vivono la sensazione del tradimento per gli sforzi fatti finora, che non solo non vengono riconosciuti, ma a cui ora si vorrebbero associare nuovi conti da saldare. Stress esistenziale, disillusione e tradimento originano un virus ben peggiore: la sfiducia, che condiziona l’agire individuale e si annida nella società. Il 75,5% degli italiani non si fida degli altri, convinti che non si è mai abbastanza prudenti nell’entrare in rapporto con le persone”.

Il Censis legge così i sentimenti prevalenti che affiorano dal “corpaccione sociale” (per usare un’espressione cara a De Rita) e che succedono al rancore evidenziato come stato d’animo più diffuso nel precedente, 52° Rapporto: stress di vivere in un contesto di incertezze, disillusione, tradimento “percepito” come somma delle risposte attese e mancate. Questi sono i fattori costitutivi della sfiducia diffusa che li riassume come evidenza unificante e prevalente.

L’economia non dà segnali rassicuranti: l’ascensore sociale è fermo, la deriva di impoverimento del ceto medio è posta su un piano inclinato, il lavoro non decolla, il calo demografico è costante tra gli italiani, (“rimpicciolita, invecchiata, con pochi giovani e pochissime nascite: così appare l’Italia vista attraverso la lente degli indicatori che restituiscono il ritratto di un Paese in forte declino demografico. Al 1° gennaio 2019 la popolazione italiana è pari a 60.359.546 residenti: 124.427 in meno rispetto all’anno precedente”) , così come continua l’emorragia dei talenti e dei pensionati verso l’estero non compensata da ingressi di pari livello, si incrina la sostenibilità generazionale con ricadute sui costi del welfare: “non si corre e non si affonda, si sta fermi in uno stand by di ritmi rallentati”. Il Rapporto evidenzia due indici eloquenti: la decrescita del settore immobiliare come modello di crescita e autotutela: il patrimonio immobiliare passa infatti dal 59,8% del 2011 al 53,9% attuale della ricchezza familiare complessiva. Viene ad erodersi una tendenza consolidata nel tempo, quella di considerare l’investimento nel mattone come il più sicuro, “bene rifugio per eccellenza” .

Contemporaneamente cala la fiducia nell’investimento in titoli di Stato: con i BOT a rendita zero, tanto che il 61,2% degli italiani si dichiara non interessato ad acquistarli.
“Lo scemare dell’antica vocazione imprenditoriale e la crisi degli investimenti tradizionali, valorizzatori dei patrimoni di milioni di famiglie, evidenziano concretamente la scomparsa del futuro nel quotidiano delle persone.”
Si tratta di una consapevolezza fatta propria dai cittadini che nella misura del 74% prevedono il perdurare della fase di stagnazione mentre addirittura il restante 26% teme una caduta di tipo recessivo.

Non si profilano all’orizzonte, dunque, nuovi sentieri di crescita per costruire il futuro.
“Al di là delle esigenze di ripristino degli equilibri finanziari e di modernizzazione delle transazioni economiche, resta il fatto che il periodico agitare la scure fiscale non aiuterà la società italiana a ritrovare la fiducia e la voglia di investire per tornare tutti a crescere. Nell’eccezionale stravolgimento sociale, condensato in pochissimi anni, il furore di vivere degli italiani li riporta tenacemente ai loro stratagemmi individuali. Finché l’ansia riuscirà a trasformarsi in furore, e il furore di vivere non scomparirà dai loro volti, non ci sarà alcun crollo”. Singolare ed ermeneutico-interpretativo questo fermo immagine del CENSIS che trasforma la sopravvivenza ondivaga delle oscillazioni di piccolo cabotaggio in un “furore” vitale, pur in un contenitore ansiogeno generale che pervade il tessuto sociale a tutti i livelli e nei meandri più reconditi degli atteggiamenti individuali e sociali come reazione allo stato di incertezza.

Viene da chiedersi quanto a lungo possa durare questa lunga fase di sfiducia, originata da altri sentimenti evidenziati nei Rapporti precedenti: se, in altri termini, la sua metabolizzazione negli stati d’animo delle persone e nella comunità produrrà ancora e fino a quando tolleranza e “voglia di vivere” ovvero se imboccheremo il tunnel imperscrutabile del disorientamento totale fino al panico esistenziale come condizione antropologica prevalente. Segnali negativi ce ne sono e non pochi, mentre quelli positivi o possibilisti non sono ad essi quantitativamente speculari o in via di radicamento nell’immaginario collettivo.
Il Rapporto evidenzia ad es. come a fronte di una crescita di 321 mila posti di lavoro tra il 2007 e il 2018 ci sia in effetti la necessità di scorporare i dati considerando “la lente dell’orario di lavoro”.

“Il risultato finale è l’esito della riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e dell’aumento di quasi 1,2 milioni di occupati part time: nel periodo 2007-2018 questa tipologia di lavoro è cresciuta del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018- 2019) è aumenta di 2 punti. Oggi, ogni cinque lavoratori, uno è impegnato sul lavoro per metà del tempo”.
Il problema principale per la gente resta la disoccupazione: “preoccupa il doppio rispetto all’immigrazione (22%), più di tre volte rispetto al tema delle pensioni (12%), cinque volte di più della criminalità (9%) e delle questioni ambientali e climatiche (8%)”.
L’impianto del Rapporto si sviluppa lungo l’asse crescente della sfiducia e abbraccia tutti i contesti e gli aspetti del vivere: importante ed eloquente l’analisi del gap tra politica e cittadini, dove si coglie uno “smottamento del consenso”, nell’attesa messianica di un salvatore della Patria e mentre “le cronache della politica nazionale risultano essere il principale oggetto dell’attenzione degli italiani quando si informano …”Il 90,3% dei telespettatori rinuncerebbe di buon grado alla vista di un politico in tv”.

Quanto al sistema scolastico – da tempo sotto la lente di ingrandimento dell’OCSE, che sostiene che nel nostro Paese vivano 13 milioni di analfabeti funzionali – il Rapporto mette in rilievo alcune criticità: “pochi laureati, frequenti abbandoni scolastici, bassi livelli di istruzione e di competenze tra i giovani e tra gli adulti: sono questi alcuni dei fattori di criticità cui il sistema educativo italiano è chiamato a dare risposta”.
Il Censis riprende in pratica alcune derive già evidenziate in una ricerca del Linguista Tullio De Mauro del 2011, laddove punta l’indice su un impoverimento culturale diffuso sul quale pesano non poco e in senso negativo – più per l’abuso che per l’uso – smartphone e tablet , intesi come strumenti di semplificazione e non di approfondimento e ricerca.

Tra i fattori propulsivi per favorire una inversione di tendenza rispetto alle derive di sfiducia e individualismo (mitigato dal crescere di fenomeni associativi spontanei) il Rapporto evidenzia la necessità di un ricambio qualitativo della classe dirigente, dove conti il merito e non più (ma l’inversione sembra in atto) la logica “dell’uno-vale-uno”.