Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Sostiene Borges nella poesia I giusti che le persone che sono contente «che sulla terra ci sia Stevenson», magari senza saperlo, «stanno salvando il mondo». Nel novero di quei giusti che amano Stevenson fanno parte, insieme al poeta argentino, uno stuolo numerosissimo di lettori colpiti e avvinti dalla felicità che scaturisce dall’arte poetica e narrativa dello scrittore scozzese e che ora, grazie alla casa editrice Vita e Pensiero, possono aggiungere un altro piccolo gioiello al loro già grande tesoro letterario. La pubblicazione del Sermone di Natale del 1887 insieme ad altri pochi e brevi testi “natalizi” (Milano, 2019, pagine 100, euro 13) rappresenta una tessera di piccole dimensioni ma essenziale per ricostruire l’enigmatico profilo di questo grande narratore, spesso sbrigativamente liquidato come autore di romanzi d’avventura per ragazzi. Anche perché ha ragione Albert Manguel (un altro dei “giusti”) quando nella prefazione afferma che «Ogni scrittore incarna un mistero (…).

Nel caso di Stevenson, innumerevoli studi biografici e critici tentano di definire l’uomo da una varietà di punti di vista. Nessuno lo coglie per intero e nessuno, certamente, ne spiega il mistero». Questi testi illuminano una zona della “geografia stevensoniana” poco esplorata, quella della fede e più direttamente anche delle preghiere. Manguel cita una riflessione della moglie dello scrittore, Fanny, per cui per il marito «la preghiera, l’appello diretto, era una necessità. Quando era felice si sentiva spinto a offrire ringraziamenti per quella gioia immeritata; quando era triste o soffriva, invocava la forza per sopportare ciò che si deve sopportare». Colpisce la profondità del pensiero presente in questi testi scritti con la consueta semplicità e il nitore che i lettori dei romanzi di Stevenson conoscono e apprezzano, al punto che un altro suo grande lettore, Chesterton, nel saggio biografico che gli ha dedicato, lo ha definito «teologo cristiano senza saperlo», anche perché, continua l’inventore di padre Brown, «Stevenson aveva l’onestà splendida e squillante di testimoniare, con una voce simile a una tromba a favore di una verità che lui stesso non comprendeva».

Il “teologo” Stevenson mostra in questi testi squisitamente religiosi la sua dottrina di cui aveva già intriso le sue opere letterarie, come ad esempio la sua avversione verso il moralismo e la sua predilezione per l’allegria. Scrive nel Sermone di Natale: «La gentilezza e l’allegria: ecco due cose che vengono prima di ogni moralità; questi sì sono i perfetti doveri. Il problema con i moralisti è che essi non possiedono né l’uno né l’altro» e aggiunge: «C’è un’idea che circola tra i moralisti, e cioè che si debba rendere buono il prossimo. Debbo rendere buona una sola persona: me stesso. Mentre il mio dovere verso il prossimo si esprime più efficacemente dicendo che debbo, per quanto posso, renderlo felice». Si capisce allora perché questo scrittore che con le sue opere ha reso felici milioni di persone, si scagliasse con veemenza contro il reverendo Charles M. Hyde che aveva pubblicato sul «Sidney Presbyterian» un articolo con cui infamava la memoria del missionario cattolico Damiano De Veuster (poi beatificato nel 1995 da Giovanni Paolo II) in una lettera riportata in questo volume ispirato al Natale.

Lo scontro tra Stevenson difensore del missionario e il reverendo Hyde è lo scontro tra l’operosità della carità e il freddo (pre)giudizio dei moralisti, uno scontro a cui lo scrittore era particolarmente sensibile: nel suo capolavoro che vede tra i suoi protagonisti, per sorprendente coincidenza, un altro Hyde, è proprio questo il tema dominante perché, con dolente saggezza, Stevenson sa bene che il mondo è il campo in cui male e bene sono mischiati, attorcigliati l’uno sull’altro come la zizzania si intreccia sulla spiga del grano buono e che ogni approccio manicheo e ogni soluzione moralistica sono destinati a fallire.

Il moralismo non è mai morale, ci dice Stevenson, e come al cuore del Natale c’è la discesa di Dio che si china sull’uomo fino a diventare uomo lui stesso, così nel “natale” di ogni giorno il cristiano è chiamato a fare lo stesso cammino di abbassamento: «Esigiamo compiti più elevati perché non siamo capaci di riconoscere l’elevatezza di quelli che già ci sono assegnati. Cercare di essere gentili e onesti sembra un affare troppo semplice e privo di risonanza per uomini del nostro stampo eroico; piuttosto ci getteremmo in qualcosa di audace, arduo e decisivo: preferiremmo scoprire uno scisma o reprimere un’eresia, tagliarci una mano o mortificare un desiderio.

Ma il compito davanti a noi, cioè quello di sopportare la nostra esistenza, richiede una finezza microscopica, e l’eroismo necessario è quello della pazienza. Il nodo gordiano della vita non può essere risolto con un taglio: ogni intrico va sciolto sorridendo». Questi testi dimostrano come la luce del sorriso di Stevenson si sia irradiata nel mondo e lo abbia contagiato, al punto che l’affermazione poetica e paradossale di Borges può risultare anche portatrice di una credibile e sorprendente verità.