L’estate ha cambiato le coordinate politiche. Parlare di “cattolici” suscita al contempo curiosità e riluttanza, se in effetti la questione posta in essere dalla svolta di governo indica l’esordio di un programma di nuova ibridazione, con tante variabili, non l’annuncio di rigurgiti identitari. Oggi Sturzo tornerebbe ad insistere sulla necessità di costruire “sintesi popolari” adeguate al tempo storico. È più faticoso, indubbiamente; più complicato di una evocazione che implichi la crasi di valori e prassi, dentro un involucro artificiale; più azzardato, infine, di qualsiasi adeguamento alla generica compartecipazione al moto anti-sovranista. Serve davvero il ritorno al “partito di cattolici”, quasi all’insegna di una improbabile resuscitazione del passato?

Diciamo pure che non serve, con tutto il rispetto per grandi e piccole perorazioni che vanno in senso contrario. Anche la politica di ispirazione cristiana si configura ormai da tempo come formula datata, poco più che teorico-immaginifica nel quadro di una riflessione a rischio di autismo neo-integralista. Nel migliore dei casi prende forma – è ciò dovrebbe allarmare – un discorso che riflette il compiacimento per una politica a “vocazione minoritaria”.

Anche l’invito a ricomporre le istanze del sociale e della morale – spesso è risuonato, in proposito, il monito della gerarchia ad assumere tale impegno unitario – s’infrange sugli scogli del realismo. Pare ingenuo presupporre che le due istanze, oggi separate e divergenti nel circuito delle dinamiche politiche, vengano ad armonizzarsi sulla scorta di una meccanica sommatoria delle rispettive verità. Ci vuole, al contrario, un esercizio di discernimento attraverso il quale indovinare una mediazione (culturale e politica) in grado di attirare un consenso di quanti non vivono l’appartenenza stretta alla dimensione pubblica della fede.

Qui si coglie il punto essenziale e dirimente. Un nuovo partito è necessario, ma può restare una chimera in mancanza di un approccio alla sua laica funzione in questa traversata nel deserto della post-democrazia, incombente e minacciosa. Guai a scambiare l’essere con l’esserci, quindi il servizio alla comunità con la riconquista di un ruolo purchessia, fatalmente risucchiato in un vortice di clericalismo. In definitiva, tocca ai cattolici riproporre giustamente, per sé e per gli altri, il “primato della politica”, con ciò che in pratica ne consegue. La fatica sta proprio nella ricerca, dentro questo scenario appena tratteggiato, di una costante e fruttuosa mediazione in ottemperanza di principi afferenti alla realizzazione del bene comune, al riparo dall’insidia del velleitarismo.