Nella elezione del Presidente della Repubblica le dinamiche tradizionali e strutturali della politica non possono non ritornare protagoniste anche quando gli attuali partiti sono in una crisi profonda, se non addirittura irreversibile.

Forse ha ragione il nostro amico e Direttore Lucio D’Ubaldo quando dice, anche se solo in un tweet, che alcuni contenuti della conferenza stampa del Presidente del Consiglio hanno evidenziato alcuni aspetti che rischiano di contraddire i principi basilari della politica. E questo sostanzialmente per due motivi che sono e restano centrali anche, e soprattutto, quando si affronta il capitolo più importante della vita politica italiana: e cioè l’elezione del Capo dello Stato.

In primo luogo, anche se questo governo è stato il frutto di un sostanziale fallimento della politica e dei partiti – nello specifico delle forze populiste uscite vincenti dalle elezioni del marzo 2018 e, per essere ancora più precisi, del populismo demagogico, anti politico, qualunquista, antiparlamentare, giustizialista e manettaro dei 5 stelle – è indubbio che la politica non può essere commissariata a lungo. Riemerge come un fiume carsico anche quando è stata ridicolizzata e resa grottesca dopo l’irruzione del populismo grillino. Perchè, appunto, prima o poi si riprende il comando. E nella elezione del Presidente della Repubblica le dinamiche tradizionali e strutturali della politica non possono non ritornare protagoniste anche quando gli attuali partiti sono in una crisi profonda, se non addirittura irreversibile.

In secondo luogo tutti noi sappiamo che, questa volta, l’elezione del Presidente della Repubblica è resa particolarmente complessa e difficile per un motivo molto semplice: e cioè, i cosiddetti capi patito non controllano più i rispettivi gruppi parlamentari. Gruppi che, come ormai tutti sanno – almeno quelli che si occupano di politica e di questo importante ma sempre più colorito percorso singolare che coincide con l’elezione del Capo dello Stato – badano quasi esclusivamente ad ottenere il massimo possibile a livello personale. Ovvero, stipendio di rango garantito sino a fine legislatura e raggiungimento del vitalizio dopo 4 anni, sei mesi e un giorno della legislatura. È del tutto evidente che di fronte ad una situazione del genere, più squallida di quasi tutte le altre vigilie per l’elezione dell’inquilino al Colle più alto, quel che resta della politica non può che tornare in campo. E le accelerazioni non guidate politicamente e non governate dalla politica rischiano, realmente, di aggrovigliare sempre di più la situazione. Come puntualmente è capitato dopo la conferenza, seppur interessante, del Presidente del Consiglio. 

Verrebbe veramente da chiedersi, se non ora quando?