Sinonimo di rivoluzione e ribellione, il rap negli ultimi quarant’anni non solo ha trasformato la scena musicale, ma ha condizionato la nostra cultura, la capacità di raccontare il nostro tempo. Ha inventato un nuovo spazio e un nuovo linguaggio per leggere il mondo. “Atlante” di Treccani offre questa settimana la possibilità di approfondire un fenomeno che va oltre l’aspetto originario.
Ne parliamo oggi con Paola Zukar, leggendaria manager dei più famosi rapper italiani. Nel 2018 ha fondato TRX Radio, la prima app radio dedicata al rap; e da qualche settimana è arrivata in libreria la nuova edizione, ampliata e aggiornata, del suo Rap. Una storia italiana (Baldini+Castoldi, 2021).
Paola, il tuo libro è una grande operazione di carotaggio nelle profondità di una parola: rap. Per cominciare questa nostra conversazione, allora88 vorrei partire proprio dalla parola rap. Cos’è il rap? Come nasce?
Il rap è un genere musicale che nasce nel contesto, più ampio, della cultura hip hop. A sua volta, la cultura hip hop nasce negli anni Settanta, a New York, grazie a DJ Kool Herc, che ha avuto l’intuizione di unire due giradischi e creare un nuovo suono, mixando brani già editi, un nuovo beat, una nuova strumentale, un nuovo genere.
Potremmo soffermarci sull’hip hop come cultura?
La cultura hip hop newyorkese degli anni Settanta era una cultura nel senso che inglobava più arti: c’era il ballo, la break dance; c’era il djing, l’arte di suonare con i giradischi; il graffiti writing; l’abbigliamento. Una cultura declinata su più piani, quello che ha avuto più successo, l’arte che ha avuto più successo, è stata il rap.
Dal sostantivo passiamo al verbo: che significa rappare?
Rappare significa comporre in metrica delle rime che si incastrano perfettamente con le strumentali. Agli inizi, il dee-jay che creava questo sottofondo musicale ne usufruiva soprattutto nelle feste dei quartieri – magari allacciandosi all’elettricità pubblica dei pali della luce –, puntava sull’entusiasmo e sulla versatilità degli MC (Master Of Cerimonies), quelli che parlavano, rappavano, rimavano sopra queste strumentali. È questa è l’origine del Rap.
E per te cos’è il rap?
Tutto quello che ho sempre cercato nella vita. Un modo per esprimere qualcosa, per esprimermi, per sentire altri esprimersi, in libertà e con una vena di ribellione. Perché il rap, dagli inizi, ma anche ora, è la musica più ribelle: era cominciata negli ambienti underground, adesso ha avuto accesso al mainstream, ma non ha mai perso la sua aspirazione all’impegno.
Mi interessa molto quest’aspetto. Ci racconteresti la rivoluzione dell’hip hop e del rap?
La ribellione, la rivoluzione intrinseca nell’hip hop e del rap è una rivoluzione intelligente. Perché non si limita a distruggere: il suo intento è costruire. Il rap affonda profondamente le sue radici nella musica afroamericana, e possiede sempre, anche nei momenti più disperati, una sua luce. Che è propria del gospel e del rhythm and blues, dell’allegria disperata di tanti artisti che si affermavano negli anni Cinquanta. Ecco, per me è una rivoluzione intelligente perché riesce, da una parte, a stigmatizzare le storture della nostra società, come il razzismo, un tema molto affrontato nell’hip hop; e dall’altra, si prefigge l’obiettivo di unire tutti sotto lo stesso ritmo, latini neri bianchi. Questa è la rivoluzione dell’hip hop e del rap: restituire la forza per stare uniti; di scontrarsi ma sempre e solo sul piano artistico.
Forse questa è la dimensione che viene più fraintesa.
All’inizio il rapper Afrika Bambaataa apparteneva alle gang di New York, in una stagione violentissima. Ha scelto di passare all’hip hop. Lì tutte le sfide, tutti gli scontri, dovevano svolgersi su un piano artistico, non dovevano mai debordare nella violenza fisica. Sono nati da questa esigenza, l’hip hop e il rap, era troppa la violenza nelle strade, troppa la distruzione. C’è stato chi ha cercato, allora, di costruire qualcosa.
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