IL RUOLO DELLA CLASSE DIRIGENTE

 

Alcune condizioni sono necessarie perché si possa recuperare il senso effettivo dell’essere classe dirigente. Dal cattolicesimo democratico e popolare vengono stimoli che fanno della ripresa d’iniziativa politica, autonoma e responsabile,  non più un miraggio. “Assentarsi ancora una volta – sostiene Merlo – o consolidare un ruolo di mero gregariato come avviene in alcuni partiti, ad esempio nel Pd, sarebbe realmente un “peccato di omissione” come recitava uno storico passaggio contenuto nella lettera Apostolica del 14 maggio 1971 “Octogesima Adveniens” scritta da Papa Paolo VI”.

 

Giorgio Merlo

 

C’è una vecchia battuta di Carlo Donat-Cattin ad un convegno di Saint-Vincent alla fine degli anni ‘80 che conserva una bruciante attualità. E cioè, “corriamo il rischio di avere una classe dirigente dove il criterio della cooptazione dall’alto prevale su quello della selezione democratica dal basso”. Una frase accompagnata anche da considerazioni più pepate dove lo statista piemontese usava il sarcasmo più sferzante ed impietoso contro “certe classi dirigenti improvvisate nelle quali, appunto, il tempo della selezione appariva più rapido del tempo della legittimazione democratica”.

 

Ho voluto ricordare questo passaggio, peraltro pronunciato in una fase storica dove c’erano ancora i grandi partiti popolari e dove le culture politiche e le stesse classi dirigenti non erano lontanamente paragonabili al “nulla della politica” di questi ultimi anni provocati e generati dall’irruzione del populismo di marca grillina. Eppure il capitolo della classe dirigente continua a pesare come un macigno sulla credibilità della politica e sull’autorevolezza di chi guida le istituzioni. A tutti i livelli. Ma la qualità della classe dirigente politica c’è solo se vengano attivati, e quindi riscoperti, alcuni tasselli decisivi che permettono di raggiungere quell’obiettivo.

 

E, su questo versante, sono almeno tre gli aspetti qualificanti e necessari che devono essere visibili se si vuol raggiungere quel risultato. Innanzitutto devono esserci i partiti. Cioè i partiti popolari e democratici. E quindi, e di conseguenza, basta con i partiti personali e del capo e con i cartelli elettorali. In secondo luogo le classi dirigenti, come diceva Donat-Cattin in quello storico convegno di Sain- Vincent, non si improvvisano. Senza scuole di formazione e senza maturare la vocazione politica direttamente sul campo, cioè nei gangli vitali e conflittuali della società, non ci può essere classe dirigente adeguata e sufficientemente credibile. In ultimo, ma non per ordine di importanza, sono indispensabili le culture politiche. Ovvero, il ritorno, seppur aggiornato e rivisto, dei grandi filoni ideali che non sono affatto fuori moda o fuori tempo.

 

Insomma, tre condizioni basilari e decisive per cercare di far decollare una classe dirigente degna di questo nome. E, al riguardo, si tratta di condizioni che non sono affatto estranee al modo d’essere e dell’agire concreto di alcuni settori della nostra società. Penso, nello specifico, alla tradizione e alla storia del cattolicesimo politico e sociale. Tre condizioni fortemente intrecciate con quello che storicamente sono stati e che hanno concretamente rappresentato i cattolici popolari e sociali nella cittadella politica italiana. E nella stagione contemporanea recuperare e rilanciare quel giacimento ideale è, forse, il più grande contributo che quella cultura politica può fornire alla politica nel suo complesso.

 

Assentarsi ancora una volta, o consolidare un ruolo di mero gregariato come avviene in alcuni partiti, ad esempio nel Pd, sarebbe realmente un “peccato di omissione” come recitava uno storico passaggio contenuto nella lettera Apostolica del 14 maggio 1971 “Octogesima Adveniens” scritta da Papa Paolo VI. E questo lo impone, credo, proprio la nostra cultura, la nostra storia e la straordinaria classe dirigente che ci ha preceduti, fatta di donne e di uomini che sono stati al contempo leader politici e statisti nella lunga storia democratica del nostro paese.