Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

Per comprendere il senso e il significato del Natale in chiave missionaria è utile riflettere sull’esperienza di un caro amico che vive in Kenya. Ho trovato, proprio in questi giorni, nelle pagine di uno dei miei tanti taccuini di viaggio, una serie di appunti che riguardano proprio lui: Gianfranco Morino. Si tratta di un medico che conobbi nel 1993 a Nairobi. È una persona affabile, generosa e perspicace, con un’innata passione per i poveri che ha sempre servito con zelo e dedizione. Chirurgo abilissimo, sessantuno anni, originario di Acqui Terme (Alessandria), Gianfranco vive in Kenya ormai da oltre 33 anni con la moglie Marcella Ferracciolo, di Casalpalocco (periferia di Roma). Dal loro matrimonio sono nati quattro figli, tre dei quali ora sono in Italia per completare gli studi universitari. 

La famiglia Morino è missionaria per vocazione: Gianfranco e Marcella si sono conosciuti quando erano volontari a Tigania nel distretto del Meru, nel nord del Kenya, e d’allora si sono voluti così bene che hanno deciso di rimanere in Africa riuscendo straordinariamente a coniugare professione, servizio e vita familiare. Gianfranco ha lavorato per anni con il Comitato Collaborazione Medica (CCM), una Ong di Torino presso il Nazareth Hospital, gestito dalle suore della Consolata. Successivamente, nel 2001, ha fondato World Friends, una Ong che gli ha consentito, sette anni dopo, di fondare alla periferia di Nairobi il Ruaraka Uhai Neema Hospital, un ospedale moderno ed efficiente costruito tra le baraccopoli di Mathare e di Korogocho, lungo la trafficata Thika Road. I pazienti in corsia — 70 posti letto — sono soprattutto donne e bambini. Le cifre parlano chiaro se si considera che ogni anno vengono effettuati tremila parti, oltre 1600 interventi chirurgici di vario genere e 130 mila visite ambulatoriali. Inoltre, l’ospedale è un centro di formazione per medici e infermieri. Il chiodo fisso che Gianfranco ha in testa, alla luce della sua lunga esperienza, è quello di avere un approccio globale alla medicina, che includa educazione, prevenzione, attività clinica, diagnostica, chirurgica, formazione e lotta alla disabilità. Da rilevare che questo approccio olistico trova anche un felice riscontro nel cosiddetto progetto Medical camp: medici e infermieri del Neema che fanno visite, distribuiscono farmaci, effettuano medicazioni nelle baraccopoli di Nairobi. Spesso, in passato, mi è capitato di seguire Gianfranco nei suoi itinerari attraverso lo slum di Korogocho, dove vivono 100 mila persone che per fame rovistano nei rifiuti in condizioni impossibili. Più della metà è malata di Aids. «La mancanza di tutto ha alimentato la miseria materiale e spirituale, mentre la solidarietà è stata minata alle radici, e la prostituzione e la violenza dilagano» mi ha spiegato Gianfranco che in questi anni ha svolto la sua missione anche grazie al sostegno della sua diocesi d’origine, quella di Acqui che, attraverso la Caritas locale, gli ha consentito di assistere schiere di ammalati. 

La situazione sanitaria del Kenya è un po’ la cartina di tornasole dell’intero continente dal punto di vista dell’esclusione sociale. Vi sono vari tipi d’ospedali: quelli statali, generalmente fatiscenti e male organizzati; quelli privati, spesso adeguati agli standard occidentali (come quello costruito dall’Aga Khan a Nairobi), ma molto costosi e quindi riservati ai pochi che possono permetterselo; e poi dulcis in fundo vi sono quelli missionari e delle Ong che cercano di fare quello che possono e spesso anche di più. L’Africa è un continente bellissimo, anche se la povertà d’infrastrutture, l’endemica corruzione, lo sfruttamento delle risorse e le fallimentari politiche di sviluppo, rendono dura la vita e spesso impediscono alla gente di curarsi adeguatamente. Si è poi soliti pensare che in un ospedale, di un Paese come il Kenya, le patologie con cui si viene più frequentemente a contatto siano quelle della cosiddetta medicina tropicale. Questo è vero solo in parte, poiché una minima quota delle malattie diffuse ai tropici trova la sua unica spiegazione nel fattore climatico. Nella maggior parte dei casi si ritrovano quelle malattie che erano maggiormente diffuse nei Paesi occidentali prima della rivoluzione industriale. «È stato dimostrato — mi ha spiegato Gianfranco — che in Europa la diminuzione di certe patologie come quelle infettive, si è verificata, prima dell’introduzione di farmaci quali gli antibiotici e dell’immunoprofilassi, grazie al miglioramento delle condizioni alimentari e dello standard di vita. Ecco che allora il termine “medicina tropicale” molte volte maschera quella che invece sarebbe più giusto chiamare medicina del sottosviluppo, del mancato sviluppo, o ancora, meno eufemisticamente, medicina della povertà». Infatti, il tragico stato di salute delle popolazioni della fascia tropicale è sintomatico soprattutto del fatto che questi Paesi sono caratterizzati da una terribile mancanza di risorse, soprattutto economiche, ma anche formative, sociali e professionali. «Come altrimenti si potrebbe spiegare — sono sempre parole di Gianfranco — l’altissima frequenza di lesioni perineali da parto, dovute alla mancanza d’adeguata educazione e assistenza, oppure la presenza di pazienti con ernie inguinali strozzate che giungono all’ospedale in condizioni generali disperate, con ritardi di giorni o settimane, a causa della mancanza di trasporti adeguati?».

Il lettore potrebbe comunque domandarsi come mai, chi scrive, abbia associato il Natale ormai alle porte, con la figura del dottor Morino? A parte lo stretto legame spirituale tra il mistero dell’Incarnazione e la testimonianza di tanti missionari come Gianfranco, vi è anche un’altra ragione. Non molti anni fa egli lanciò, a nome di World Friends, una campagna intitolata “Fiori degli slum”, in riferimento ai bambini nati fra le baracche e le fogne a cielo aperto. Da quelle parti, nelle baraccopoli non cresce niente: non ci sono prati, fiori o alberi. Un paradosso se si pensa che i turisti vengono in Kenya per ammirare la natura rigogliosa delle savane o delle foreste. I fiori degli slum, allora, sono la metafora di quelle creature che vengono al mondo in un contesto di grande miseria, come Nostro Signore duemila anni fa in Palestina.