Intervista a Giorgio Cella: “Un anno di pandemia globale. Riflessioni sugli aspetti geopolitici, psichici e sociologici”

Giorgio Cella, Dottore di Ricerca e Docente in Università Cattolica, analista per Limes e NATO Foundation

Dott. Cella, era esattamente un anno fa quando su queste stesse pagine, e a pandemia appena esplosa, discutemmo di che cosa sarebbe successo al mondo da lì in poi: rileggendola, vedo che varie questioni discusse e varie sue formulazioni si sono avvicinate alla realtà plasmata da Covid-19 durante il lungo, sofferto 2020 trascorso. Intanto si aprono nuovi fronti di preoccupazione. Ci offre qualche elemento di riflessione?

Ricordo bene, naturalmente, eravamo nella fase aurorale, alle prime avvisaglie di ciò che andava pericolosamente delineandosi come un nuovo landmark della storia contemporanea: erano gli inizi di questa prima pandemia globale e globalizzante, moltiplicatrice delle molteplici interdipendenze transnazionali così tipiche della nostra era globale. Globalizzazione economica, tecnologica, sociopolitica e culturale che già in epoca ante pandemia, se da un lato, nell’accezione data da Giddens, avvicinava gli uomini e riduceva drasticamente le distanze di comunità tra loro molto lontane, dall’altro, come lumeggiato invece ad esempio da Hobsbawm, costituiva già una planetaria gesellschaft, nell’accezione di un’entità percepita come progressivamente più distante dall’essere umano. Aldilà dell’ermeneutica sui processi di globalizzazione, ciò che empiricamente sappiamo è che il molto particolare nonché drammatico anno pandemico da poco trascorso, è stato indubbiamente complicato e drammatico per molti. Un 2020 iniziato tra l’altro con un evento di natura politico-militare: l’eliminazione del generale iraniano Qasem Soleimani per volontà dell’amministrazione Trump. Un anno e un’amministrazione che di lì a poco verranno totalmente risucchiati da quella poderosa capacità trasformativa di Covid-19. Pandemia sulle cui origini, inoltre, senza voler ovviamente dare adito alle tante teorie cospirazioniste del web, non è stata ancora fatta luce in modo definitivo, come emerge dai (non) risultati del report della recente missione della squadra di esperti dell’OMS in Cina, cestinato ufficialmente per via delle crescenti forti tensioni tra Washington e Pechino. Nel nostro primo dialogo accennai altresì alle formulazioni concettuali del poeta latino Giovenale, al suo concetto di rara avis in terris con riferimento alla metafora del cigno nero, nel senso di elemento scardinatore di certezze e di visioni del mondo date per acquisite. Metafore antiche e loro declinazioni tuttavia adeguatissime in un mondo mutato in impensabili cambiamenti sociali, economici, geopolitici e financo antropologici, nell’accezione del vivere con l’altro e relativamente alla quotidianità routiniera dei più, senza dimenticare gli oltre due milioni di vite strappate da Covid-19 dal mondo dei viventi. Un momento storico senz’altro cruciale, amplificatore di fragilità e incertezze globali e individuali, con irradiazioni destinate a farsi sentire anche negli anni a venire. 

Dott. Cella, nella prima intervista del marzo 2020, Lei aveva considerato in termini generali il virus come elemento dirompente, che come ha ricordato invalida certezze date come acquisite; che considerazioni generali sull’elemento pandemico e sulle sue conseguenze si sente di fare a un anno di distanza?

A un anno di distanza dall’esplosione pandemica, tra i vari, c’è un particolare aspetto che mi viene in mente quando si riflette sugli effetti del Covid-19, un lato forse meno percepibile, meno immediato, ma legato a uno di quei pochi elementi che reggono le strutture perenni della condizione umana: il tempo. In effetti, a distanza di un anno e in termini esiodei, alla definizione di memento mori universale che diedi a Covid-19 nella nostra prima conversazione, si può ora unire quel titanico effetto che la pandemia ha impresso sulla dimensione cronologica, riuscendo infatti per certi versi a dare la percezione di bloccare o quantomeno arrestare l’instancabile fluire del tempo finito in terra. Tale aspetto temporale, che da tempi immemori si lega in un inscindibile vincolo alla morte, si è rimanifestato dunque durante la pandemia, si potrebbe dire a immagine e somiglianza di crono: uno di quegli elementi che di pari passo con la necessità, la contrarietà e il destino, tutto regola e governa nell’esistenza umana. Covid e Crono quindi, ignote potenze shivaite, entrambe manifeste nella loro forza divoratrice di uomini e di eventi terreni. Venendo invece a considerazioni più percettibili, direi che la pandemia è stata una cartina di tornasole per molte questioni dei molteplici campi dell’agire umano nelle più disparate realtà e latitudini del nostro pianeta. Alla luce delle risposte a tratti disastrose, quantomeno nella prima fase, di vari Paesi occidentali di primo piano, o l’altrettanto pessima coordinazione riguardo la campagna vaccinale della stessa Unione Europea – che ha così perso un’altra opportunità per produrre una visione politica, strategica e solidale europea – Covid-19 ha fatto emergere sul piano globale disfunzionalità e impreparazione diffusa di intere classi dirigenti e di interi sistemi-paese. Dall’altro lato, Covid-19 ha tuttavia stimolato una risposta tempestiva da parte della comunità scientifica mondiale, portando allo sviluppo di vari vaccini in tempi record. La pandemia ha severamente testato le capacità interne di reazione e organizzazione di ciascun apparato amministrativo, configurandosi come un macro-test sulle capacità di reazione degli Stati. Salvo pochi casi virtuosi, come ad esempio Singapore o la Nuova Zelanda, la maggioranza dei governi sono stati presi di sorpresa e si sono ritrovati in grandi difficoltà davanti a questo improvviso quanto letale diversivo della Storia. Inoltre, come vediamo dalle cronache di questi giorni, varie parti del mondo appaiono ancora lungi dall’esserne fuori nonostante la grande arma vaccinale; un’arma che intuibilmente è stata ammantata da una dimensione di competizione geopolitica interstatale, in una classica ottica di accrescimento del proprio vantaggio strategico ed economico. Quello che sembra prospettarsi oggi, quantomeno fino a quando una parte consistente delle popolazioni non saranno state vaccinate, è una realtà di vincoli e limitazioni e, per così dire, di costante attenzione sanitaria. Naturalmente, l’auspicio è che nel medio-lungo periodo non si ripresentino nuovi fenomeni pandemici di eguale o diversa gravità e natura e che le società possano riprendere un’esistenza il più vicino possibile a quella ante pandemia.

Prima di continuare su un discorso relativo agli Stati e alla politica internazionale, mi piacerebbe che Lei esprimesse che ruolo e comportamenti ha invece osservato nei popoli durante questo lungo anno dominato dalla pandemia, naturalmente con prevalente riferimento all’Europa, all’Occidente e al nostro Paese. Come siamo cambiati ‘dentro’?

Anche la dialettica tra vertici e masse si configura, può piacere o meno, in un quadro di vasi comunicanti: l’azione governativa genera reazioni ed effetti diretti sulle popolazioni. Con riferimento al mondo occidentale, all’Europa e all’Italia in particolare, l’esplosione della pandemia ha scaraventato le moltitudini – adagiate ormai in una nuova belle époque prodotto della globalizzazione fatta di costanti distrazioni, intrattenimento, comodità e svaghi per tutti o per molti – in una realtà del tutto inedita dal secondo dopoguerra ad oggi, fatta di nuovi divieti, di alcune privazioni e di altrettante limitazioni: un fenomeno paradossalmente figlio di quella stessa globalizzazione del benessere, che ora però nella sua dimensione bifronte, ha mostrato il suo altro volto spargitore di morte, paura, separazione e incertezza. Una nuova condizione non certo paragonabile agli stati di guerra, come taluni hanno scioccamente quanto sensazionalmente affermato, ma che costituisce chiaramente una cesura col mondo ante Covid-19. Una realtà che mi ricorda tra l’altro una linea di pensiero espressa a suo tempo dall’economista Tommaso Padoa Schioppa, il quale predisse un ritorno alla durezza del vivere per l’individuo, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità…tutte situazioni e condizioni dalle quali, continuava l’economista, il benessere e il sistema di protezioni del Ventesimo secolo aveva troppo allontanato e disabituato i popoli. Aggiungerei che l’irruzione della pandemia e la sua conseguente gestione, ancora in corso, avrebbe potuto costituire il momento per un nuovo corso, soprattutto per le nuove generazioni, guidandole con giusta fermezza e conoscenza in questa lunga e traumatica traversata nel deserto. Avrebbe anche potuto essere l’occasione per la costruzione o il rafforzamento di alcuni paradigmi valoriali e anche di una nuova paideia, forse ormai necessaria. Una paideia che amalgamasse ad un tempo un più forte senso di fedeltà verso lo Stato (nell’accezione hobbesiana) e di appartenenza verso la comunità (nell’accezione weberiana) ad un’aumentata consapevolezza su taluni imprescindibili temi globali figli del nostro zeitgeist che, sempre più, volenti o nolenti, influenzeranno e condizioneranno anche le nostre realtà nei tempi a venire: dalla questione ecologica e i grandi cambiamenti climatici e naturali – da non ideologicizzare ma da affrontare sulla base dell’evidenza scientifica – ai connessi macro-fenomeni migratori e ai relativi sforzi di gestione e integrazione, nonché la a sua volta connessa necessità di un costruttivo dialogo interreligioso – anche in chiave anti-terrorismo – condotto nel reciproco rispetto delle identità e tradizioni, da costruire non solo dall’alto ma altresì dal basso, sul piano locale. Un dialogo così mirabilmente intessuto e realizzato dal Vaticano in quella traiettoria storica che si consolida con Papa Giovanni Paolo II e il suo incontro ad Assisi dell’86, ripreso oggi con vigore dal Pontificato di Papa Bergoglio, se pensiamo alla recente missione del Pontefice nell’antichissima e grandiosa Ur dei Caldei. A causa del momento così peculiare e anche a tratti misterioso in cui sono piombate le società, vi sarebbe inoltre stato un propizio elemento per determinare quella sopracitata positiva formazione e suoi relativi aggiustamenti sociali: quello del timore. Un elemento che, come evocato e descritto con la consueta maestria oratoria ed eccelsa erudizione dal Cardinale Gianfranco Ravasi, è distinto da quello della paura, e reca in sé fin dai tempi immemori una dimensione favorevole, se si riflette ad esempio sul massimo principio del timore verso la divinità: principio della sapienza è il timore di Dio, rammenta infatti il porporato. Aggiungo in conclusione che, contestualizzando tale concetto, lo si sarebbe potuto declinare in un aumentato rispetto verso le scale valoriali e più in generale verso il concetto di gerarchie. Da ultimo, ricordando gli auspici da me espressi un anno fa su queste stesse pagine circa l’eventualità di una accentuata sfera introspettiva e contemplativa individuale, prendo contezza di come, evidentemente, non si trattava che di elucubrazioni di pensiero personali, relegate a una weltanschauung evidentemente impopolare. Non si è infatti visto nell’innominabile attuale, per dirla con Roberto Calasso, come ci ricordano i tanti episodi della cronaca giornaliera e di costume, quel generalizzato miglioramento – timidamente accennato in qualche occasione anche dall’ex premier Conte – di tipo socio-comportamentale e intellettuale dell’individuo. 

Geopolitica mondiale: un tema sempre affascinante e dalle sfaccettature caleidoscopiche. Un anno fa Lei aveva tratteggiato una sfida dai contorni geostrategici ed economici che sarebbe ruotata anche intorno al virus e alla sua gestione. Che panorama osserviamo oggi, ad un anno di distanza?

Una doverosa premessa: i grandi fenomeni globali planetari come le pandemie, le calamità, i cambiamenti climatici – e la grande trasformazione ecologica che ne consegue e che occupa ormai uno dei punti prioritari dell’agenda globale, come in quella nazionale – costituiscono anch’essi un sistema di vasi comunicanti con la geopolitica e con il sistema internazionale, che deve ogni volta (re)agire di conseguenza, rincorrendo un’agenda scritta da altre imprevedibili forze. Questo intrinseco legame, questa involontaria sinergia tra le due dimensioni, se così vogliamo definirla, è probabilmente destinata a replicarsi in futuro, in occasioni di nuovi imprevedibili fenomeni naturali. Su un piano meno teoretico e più geopolitico, abbiamo invece visto l’intensificarsi della tensione tra la superpotenza americana, in affanno, ma ancora in un netto vantaggio globale strategico sui suoi rivali, e quella ascendente cinese. A un anno di pandemia, tracciare un bilancio sarebbe poco realistico, sebbene sia possibile osservare in modo sinottico talune tendenze e posture strategiche di fondo dei protagonisti della politica internazionale. Sebbene Pechino sembrava essere uscita in qualche modo avvantaggiata dopo la gestione della prima fase pandemica, i più recenti dati economici gettano qualche ombra su tale apparente vigorosa ripresa, considerando altresì le pesanti battute d’arresto che hanno colpito il progetto della Nuova Via della Seta e le non meno preoccupanti problematiche demografiche, dove i dati su un’allarmante denatalità rischiano di minare il sistema sia sul piano dello sviluppo interno così come in quello della proiezione di potenza esterna. Per quanto riguarda gli Stati Uniti invece, non sarò certo io a poter riassumere in poche righe un anno così pregno di eventi dirimenti per la storia contemporanea americana dove, tra il tramonto della prima fase del sovranismo a stelle e strisce a guida Trump, l’assalto al Campidoglio e la nuova presidenza Biden, è emersa una pericolosa polarizzazione societaria e ideologica tra due visioni diverse d’America, sul cui sfondo, si staglia l’atavica questione delle tensioni razziali e della lotta per i diritti della comunità afro-americana. La presidenza Biden ha davanti a sé tre sfide prioritarie, due di carattere esterno, una interna. Le prime due riguardano in primo luogo la competizione crescente con Pechino su scala globale, destinata a plasmare l’andamento delle relazioni internazionali future; in misura minore lo stesso discorso si pone anche nei confronti di Mosca, con la quale, più probabilmente, continuerà ad alternare il dialogo su alcune issue a politiche di logoramento nelle varie contese geopolitiche in Europa centro-orientale e in Medioriente, dove esistono interessi strategici tradizionalmente divergenti. La seconda questione riguarderà la ricostruzione del tessuto geopolitico che lega le due sponde dell’Atlantico, così gravemente sfilacciato dai quattro anni di presidenza Trump; la NATO andrà quindi nuovamente ripensata in un ennesimo riadattamento strategico, con probabili proiezioni di potenza anche in Asia-Pacifico. Detto ciò, è prevedibile che una aliquota delle istanze trumpiane dell’America First verranno mantenute anche da questa nuova amministrazione, come già affiorato nella questione della commercializzazione e distribuzione dei vaccini. Il terzo punto, di natura domestica, verterà sul difficile lavoro di ricomposizione di un’armonia etnica e comunitaria degli Stati Uniti, compito decisamente arduo, visti gli oltre settanta milioni di voti per Trump nelle elezioni del novembre scorso che ci ricordano come quelle linee divisive ideologiche sopra menzionate difficilmente scemeranno nel breve periodo. Sullo sfondo della competizione geopolitica tra i due colossi del sistema internazionale, si staglia il ruolo di grande rilevanza della Russia: ruolo geopolitico ad oggi ancora piuttosto incerto in termini di posizionamento, di allineamento, ma contraddistinto da un controverso tilt verso Pechino che, a dispetto di certe analisi ottimistiche, non sembra per ora affievolirsi.

Sempre con memore ricordo della nostra discussione del marzo 2020, venne spontaneo anche argomentare sul fenomeno sociopolitico del cospirazionismo, che poi è letteralmente esploso nell’arco dello scorso anno – pensiamo all’assalto di Capitol Hill ad esempio – ossia la questione delle teorie del complotto e delle cosiddette fake news. Le chiederei di aggiungere qualche pensiero in merito, aggiornando le Sue valutazioni alla situazione per come si è evoluta e per come è stata via via conosciuta.

Credo che si debba fare in primis chiarezza su taluni termini-concetto di facile presa popolare, e le reali dinamiche storiche e contemporanee che dietro tali questioni si celano. Il termine fake news, ad esempio, poi rilanciato anche nel dibattito politico domestico dagli epigoni nostrani diffusori dei termini di moda d’oltreoceano, assurse a notorietà globale in seguito al suo utilizzo da parte di Hillary Clinton nella campagna elettorale del 2016 – in risposta alle pesanti accuse di varia natura contro di lei e il suo staff – e poi reiterata in modo sistematico dal suo allora sfidante, in seguito presidente, Donald Trump, lungo i suoi quattro anni al potere.  Tale idea, la si vorrebbe far passare come qualcosa di originale o inedita figlia di questi tempi, mentre ovviamente è sempre esistita storicamente; dicesi propaganda politica, fatta anche di notizie distorte a piacimento o financo integralmente false. Uno stupirsi di cose in realtà per nulla originali o inedite. Comunque, tornando al presente, e al futuro, abbiamo visto come a volte, teorie della cospirazione come ad esempio quelle di Q-Anon, abbiano assunto un peso che nessuno avrebbe potuto immaginare. Tali teorie e congetture sono diventate il portato di una parte della base elettorale statunitense segnata da malcontento e frustrazione, che ha così legittimato, quasi in una missione pseudo-escatologica, l’assedio alla sede delle istituzioni della democrazia americana, nonché, simbolicamente, di quella globale. Il tutto, ovviamente, è stato reso possibile da una smodata libertà nei social, dove chiunque, come aveva già avvertito a suo tempo Umberto Eco, a prescindere dall’iter studiorum o da qualsivoglia logica meritocratica, può scrivere qualsiasi idiozia raggiungendo peraltro un numero impensabile di persone, con le ormai famigerate ricadute negative in termini di disinformazione nel campo scientifico, politico et cetera. E’ probabile pensare che in futuro il legislatore o gli stessi vertici dei social media, dovranno agire, come in parte stanno già facendo, per far fronte a queste lacune tramite qualche limitazione in più, il che non significherà nessuna limitazione delle libertà, semmai una regolamentazione di un campo per certi aspetti ormai quasi anarchico.

 

Se volgiamo lo sguardo all’Italia, invece, che cambiamenti ha osservato nel Paese e come vede l’orizzonte politico interno alla luce dei grandi cambiamenti in atto, dopo la fine del Governo Conte II e l’arrivo dell’ex presidente della BCE, Mario Draghi?

La capacità trasformativa dell’elemento pandemico ha inciso profondamente anche a livello domestico, nazionale, l’Italia ne è un caso lampante. Tale situazione, un nemico unico (invisibile) da combattere, ha prodotto smottamenti notevoli nel quadro politico interno. La pandemia ha fatto emergere l’importanza di un (seppur graduale) positivo, quanto sostanziale, cambio di approccio e dell’azione politica tout court: meno legata a slogan e irresponsabili promesse meramente elettorali per la mera ricerca di aumento del consenso e più legato al metodo, alle competenze e alla capacità gestionale di affrontare i problemi. Questa impostazione, apprezzata anche da una crescente parte di un elettorato ormai esausto da risibili quanto fantasiose promesse, di slogan demagogici e di politici improvvisati, si è concretizzata nell’ennesimo cambio di governo con l’arrivo di Mario Draghi, incarnazione stessa di quelle sopracitate competenze, di principi meritocratici, del virtuosismo manageriale e profilo di raro prestigio internazionale e reputazionale. Un nuovo governo che si è inserito nella fase forse di più acuta debolezza, farraginosità della politica e del sistema partitico della storia repubblicana, in un contesto quasi disfunzionale. Un nuovo governo che, sebben lungi dal costituire una perfetta forma di sofocrazia illuminata, appare incline a cambiare passo su determinate sopramenzionate dimensioni di approccio e metodo, nonché di sobrietà comunicativa. Un governo che già nel suo primissimo periodo, per il solo fatto di essersi costituito, ha ulteriormente disorientato e disgregato l’agonizzante sistema partitico del Paese, generando corse alla trasformazione (al trasformismo?) di alcune forze partitiche populiste, se pensiamo a un M5S ormai fortemente mutato e al suo interno diviso, o al forte disorientamento identitario e di leadership di altre forze, se guardiamo ad esempio al Partito Democratico. Tuttavia, aldilà della meno rilevante questione interna partitica, è tuttavia necessario considerare come i forti allarmi sul piano sanitario come su quello economico provocate dalla pandemia e dalle misure messe in atto per contenerla, così come le incertezze sulla preparazione e definizione del Recovery Fund, abbiano portato il sistema a implementare un netto cambio di passo suggellato dall’arrivo dell’ex presidente della BCE. Per quanto riguarda una certa parte dell’agone politico della cosiddetta area (ex?) sovranista, è invece chiaro come il periodo di pandemia abbia ulteriormente trasceso ed annacquato la storica antitesi destra-sinistra, usata ormai in modo più che altro propagandistico, portando indirettamente a un forte ridimensionamento di taluni cavalli di battaglia sloganisti di tali movimenti, se si considera ad esempio la mutazione (o la maturazione) politica della Lega a trazione Giorgetti attuata con la scelta di convergere verso politiche europeiste all’interno della compagine governativa a guida Draghi; scelta dalla quale molto difficilmente il partito potrà del resto fare marcia indietro in futuro. Forze populiste che si sono tra l’altro ritrovate oggi orfane da un lato del punto di riferimento del trend sovranista globale rappresentato dall’ex presidente Trump, specie in seguito alla rovinosa uscita di scena con l’assedio dei suoi seguaci a Capitol Hill, dall’altro delle sponde orientali, dopo la fine di quell’iniziale infatuazione nei confronti della Russia di Vladimir Putin e dell’Ungheria di Victor Orban. In una conclusione di carattere più ampio e di lungo termine, bisogna tuttavia dire come anche nella più rosea messa a punto e implementazione del Recovery Fund, ciò non potrà comunque significare naturalmente la fine di quella crisi economica di sistema iniziata ben prima dell’irruzione pandemica. Dietro tutta questa situazione, infatti, come indicano chiaramente i lavori dell’ultimo World Economic Forum, si staglia l’enorme e sempiterna issue del debito pubblico nazionale, nonché di quello globale, una questione che troverà forse qualche tipo di soluzione, più o meno indolore, negli anni successivi alla risoluzione di questa prima fase pandemica globale.