Intervista pubblicata sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma del Direttore Andrea Monda

«Sì, certo che si deve fare questo sinodo della Chiesa italiana ma per parlare di che cosa? E solo per parlare? Io mi permetto di dirlo sotto voce, ma farei un sinodo sullo Spirito Santo».

Giuseppe De Rita ci ha abituati alle sorprese dell’intelligenza e quando ci accoglie di pomeriggio nella sede del Censis, arzillo e pimpante come un ragazzino di 89 anni (reduce del vaccino ricevuto proprio quella mattina), si diverte a sparigliare le carte e, dopo aver invocato, anche sulle pagine di questo giornale, l’urgenza di un sinodo per la Chiesa italiana, oggi ne accusa tutta l’insufficienza. A meno che non lo si organizzi con una mentalità diversa da quella del passato: «Ci vuole prima un atto di consapevolezza e uno scatto in avanti e cambiare il passo, altrimenti un sinodo sarà pura organizzazione, discussione sui poteri e sui ruoli, qualcosa di condannato a non incidere sulla realtà».

Anche al sociologo romano abbiamo chiesto di leggersi l’articolo di Pier Giorgio Gawronski («Le Chiese vuote e l’Umanesimo integrale», «L’Osservatore Romano» 22 febbraio 2021) che De Rita trova molto condivisibile su tanti aspetti: «È ricco di spunti preziosi e di analisi corrette come la domanda di amicizia; inoltre il confronto con le prime comunità raccontate dagli Atti degli Apostoli è molto forte, tutto questo va benissimo, ma vorrei porre la discussione su un altro livello, secondo me infatti c’è un problema più sottile che è quello che gira sul cuore, l’essenza di una comunità, che è il tema del camminare insieme».

Pensavo di incontrare un sociologo e invece mi sono trovato davanti un teologo, che ha voglia di pensare, di parlare, di condividere le sue riflessioni; ne scaturisce come un fiume in piena di intuizioni, stimoli, provocazioni.

Cos’è una comunità? L’amicizia tra i membri è importante ma non è il cuore che secondo me sta nella consapevolezza che tutti i membri stanno camminando insieme, lungo un percorso comune e verso una meta; ci deve essere una finalità. Come dice il Salmo 83: «Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio […] Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion» (Salmo 83, 6-8). Tutti noi siamo impegnati a fare questo viaggio, se possibile con vigore sempre crescente: è questo il destino di ciascuno di noi e della comunità ecclesiale in quanto tale.

Fin qui il biblista, ma ora sopravviene il teologo.

Ricordo vividamente una conferenza di Ratzinger del 1990, pubblicata anni dopo su «L’Osservatore Romano», sulla figura del cardinale New-man, in occasione del centenario della morte, in cui diceva che Newman ci ha dato l’incrocio fra storia e teologia, che prima sembravano del tutto lontane perché la teologia è fuori dalla storia. Più precisamente Ratzinger affermò che Newman «mise nelle nostre mani la chiave per inserire nella teologia un pensiero storico, o piuttosto: egli ci insegnò a pensare storicamente la teologia, e proprio in tal modo a riconoscere l’identità della fede in tutti i mutamenti». Uno spunto molto interessante, oggi. Se infatti teologia e storia si intrecciano e si interpretano allora il percorso è la teologia stessa, anzi Dio stesso è il cammino. Ma di quale Dio stiamo parlando? E qui, in punta di piedi, oso affermare, che stiamo parlando dello Spirito Santo.

Quindi non un teologo qualsiasi, ma un esperto di teologia trinitaria. De Rita si rifà al saggio di Roberto Calasso «Il libro di tutti i libri» dedicato alla Bibbia che vede la storia umana svilupparsi sotto l’egida del Padre.

È il Padre onnipotente, onnisciente che interviene nella storia, libera gli uomini con braccio potente… questa storia finisce, si compie, con l’avvento di Cristo. Ma non è che finisce il Dio Padre, che resta ancora, anche se “nei cieli” (infatti tutti noi lo preghiamo quotidianamente), quello che finisce è il rapporto fra la storia umana e Dio in quella modalità, di un Dio che sta in alto e pur partecipando alle storie umane non ha però alcuna dimensione “orizzontale”. Con Cristo subentra la dimensione dell’amore, della relazione, appunto dell’orizzontalità. Ora se per Dio Padre ci sono voluti tre-quattromila anni, penso ad Abramo che il Papa è andato a trovare qualche giorno fa con il viaggio in Iraq, questo vuole dire che ci vorrà un tempo analogo perché si sviluppi il tempo del Dio Figlio. Stiamo quindi dentro questa evoluzione lenta del Figlio, la divinità orizzontale fatta di amore e di primato della relazione, per usare un termine caro a Levinas. Ci vorrà tempo quindi prima che si consumi il ciclo del Figlio. Con l’accortezza che i cicli non si consumano mai del tutto ma tutto è contemporaneo nella storia della salvezza. Il ciclo del Padre quindi non si è consumato, però ha già sviluppato i suoi effetti, ha dato i suoi frutti, il ciclo del Figlio, che è più recente, ancora non è maturato fino a questo punto. Noi ci troviamo qui, in una svolta verso il termine del ciclo del Figlio, che è stato un ciclo complesso, drammatico, un periodo che ha conosciuto grandi lotte di religione perché la dimensione orizzontale porta anche questo, non è sempre all’insegna del “volemose bene”, non è sempre l’abbraccio del fratello, ma anche le guerre di religione, la dialettica di Hegel, il marxismo… La dimensione orizzontale non ha consumato tutto il suo ciclo e finché non lo consuma è difficile che entri in scena il terzo atto, che ovviamente è quello dello Spirito Santo, che è lo spirito che ci guida, come dice il salmo, con vigore sempre crescente, verso l’ascensione al Monte di Dio in Sion.

Faccio notare che il giovane teologo Joseph Ratzinger scrisse la sua tesi su Gioacchino da Fiore e la sua profezia (che Dante riporta nel suo poema) sulle tre ere storiche scandite dalle tre persone della Trinità. De Rita sorride e cerca di mettere a fuoco la terza era, la più affascinante ma anche difficile da comprendere.

Lo Spirito Santo è senz’altro la più difficile delle persone della Santissima Trinità, perché è immateriale, non ha un “volto” come lo ha il Padre Onnipotente o il Figlio che ha il volto di Gesù Cristo in croce. E quindi noi andiamo incontro ad un tempo, che probabilmente durerà un millennio, in cui consumeremo ulteriormente il ciclo del Figlio, segnato dall’orizzontalità e quindi, ad esempio, faremo un accordo con i sunniti, con gli sciiti, e poi con i cinesi, perché è inevitabile perché è Dio che opera, non è che siamo noi che facciamo l’accordo, è Dio che vuole unità nel Figlio, unità nella relazione, in ossequio e corrispondenza alla natura interna della Trinità che è relazione. Dalla relazionalità divina scaturisce la relazionalità dentro la storia che è arrivata con l’incarnazione, con Gesù Cristo che ha immesso la dimensione orizzontale a fianco a quella verticale del Padre. Ma all’orizzonte già si vede qualcosa di nuovo, l’era dello Spirito Santo.

E qui si ritorna alla sociologia, e anche all’articolo di Gawronski da cui eravamo partiti.

Alcune delle cose che noi sentiamo sono sostanzialmente situate nel passaggio tra un ciclo e l’altro, le sentiamo quando parliamo (e anche Gawronski nel suo articolo lo dice) di spiritualità. Nelle nostre ricerche sociologiche registriamo il fatto che la gente cerca spiritualità, poi magari la coltiva nei modi più disparati, in parrocchia o nel corso yoga, ma il dato comunque è questo: sete di spiritualità. Sete cioè di quello Spirito che “soffia dove vuole” e va avanti, ti porta avanti.

In concreto quali effetti comporta questa sete di spiritualità?

Tutto segnala la necessità di un cambio di paradigma perché nell’era dello Spirito non c’è più spazio per una Chiesa “organizzata”. L’organizzazione sul potere del Padre la fai direi “naturalmente”, con la gerarchia; l’organizzazione sulla Chiesa del Figlio la fai perché fai tanta relazione, fai tanto volontariato, l’afflato verso l’Africa… magari fai anche il sinodo, ma l’organizzazione della cultura, come direbbe Gramsci, nella Chiesa dello Spirito come la fai? Ed è qui che noi oggi stiamo. Il sinodo, di cui tanto si parla, rischia che risponda ancora alla logica del Padre, cioè gerarchico, ad uso e consumo dei vescovi, o del Figlio, in una formula “mista”, gerarchica ma aperta al sociale, aperta ai contributi di tutti, dai sindacati alle monache di clausura… ma anche questa sarebbe una formula già vecchia, alla fine insufficiente. E lo dico io che sono un difensore del sinodo aperto al sociale, come fu l’esperienza degli anni ’70: tutti in chiesa 5.500 persone e il giorno dopo tutti nei cinema dell’Appio Latino e della Tuscolana a discutere ancora… quello sarebbe un bel sinodo, però non ti risolve questo problema che è l’arrivo del tempo dello Spirito annunciato da questo forte bisogno di spiritualità. La questione oggi è accogliere il ciclo prossimo venturo dello Spirito, del rapporto interiore con Dio, dell’apertura al mistero. È questo un ciclo molto più faticoso, perché non è filosofico, la dimensione qui è quella propria del mistero. Il cristiano ora è chiamato a camminare finché non arriva al monte di Sion e in mezzo non sa che cosa trova; camminare nel deserto come avevano fatto i nostri progenitori, ma senza riferimenti quotidiani, abituali… non c’è il concilio, non c’è il sinodo, non c’è la messa domenicale. E infatti oggi le messe domenicali vivono se riscoprono un po’ di spiritualità.

Non si corre il rischio di un camminare non insieme ma da soli? Il popolo fedele di Dio che fine fa in questa dimensione spirituale che rischia di essere vissuta in modo intimo, individualistico?

Qui emerge il ruolo dei preti. Il popolo di Dio Padre aveva i preti, pensiamo all’Antico Testamento, c’erano tante figure di sacerdoti ed erano tutti funzionali a quel tipo di Chiesa gerarchica, verticale e di potenza dall’alto. Anche il cristianesimo ha avuto i suoi preti, senza i quali non ci sarebbe stato. Mi viene in mente un’esperienza a me vicina e cara: i rosminiani, una struttura minuscola eppure preziosa: senza i rosminiani, piccoli sgangherati e maltrattati, tenuti all’indice, nessuno si ricorderebbe di Rosmini. L’importanza dei preti è fondamentale. E allora saranno altri preti che permetteranno alla Chiesa di vivere questa dimensione della spiritualità, magari organizzando una riflessione sullo Spirito e citando pure New-man. La questione allora è la modifica dei preti da truppe della gerarchia o della fratellanza a preti di un nuovo sistema. I pascoli a cui siamo abituati non offrono più nulla, dobbiamo andare verso nuovi pascoli, trovare erba fresca, però c’è il problema di chi ti porta su queste nuove strade. Personalmente ritengo che l’evoluzione della Chiesa in questa fase inedita dello Spirito porterà alla forma del “piccolo gruppo”. Lo dico per esperienza personale. La piccola comunità finisce di essere il luogo di riflessione, di discussione… ma i pastori devono essere preparati altrimenti l’alternativa è quella che dici tu: la Bibbia me la leggo da solo, il salmo tutti i giorni me ne leggo uno, ma non ci fai Chiesa. Però, ripeto, secondo me è inutile rimanere ancorati alle vecchie dimensioni verticali o orizzontali del Padre e del Figlio, dobbiamo entrare invece nel ciclo dello Spirito e sento che la gente sarebbe attratta. Perché la domanda c’è, dobbiamo allora osare e giocare d’anticipo. Che cosa ha attratto verso i rosminiani persone come Clemente Rebora o Clemente Riva? Li ha attratti il gusto del cammino intellettuale e spirituale, non fare comunità di grandi numeri.

Ricordo sempre il teologo Ratzinger che parlava appunto del futuro della Chiesa come di una realtà costituita da “minoranze creative”.

Esatto: creatività per anticipare i tempi che a me sembrano già maturi. Per onestà devo ricordare che già quando andammo con il cardinale Poletti ad inaugurare la mensa a Colle Oppio, erano gli anni della Caritas di don Luigi Di Liegro (e quella è la mia storia, anche professionale, tutta la mia vita è sulla dimensione sociale, orizzontale), però devo riconoscere che già allora sentivo una qualche difficoltà a restare in quella dimensione, qualcosa mi mancava. È difficile oggi parlarne perché scatta il sospetto che io stia immaginando una Chiesa individualista, luterana, che ci sia un primato della fede personale rispetto alle opere e sarebbe ovviamente un sospetto infondato. Il punto è invece che la mia riflessione è tesa ad andare verso una Chiesa in cammino che non è né orizzontale né verticale ma una Chiesa che affronta il mistero, abramitica appunto. Mettesi in marcia, in cammino, realizzare un esodo.

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