La notte delle ninfee: come si malgoverna un’epidemia. Intervista a Luca Ricolfi.

Luca Ricolfi (Sociologo), insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, è Presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume)

Prof. Ricolfi, dopo il grande successo de “La società signorile di massa” in questo nuovo libro affronta il tema della pandemia, il grande flagello che da un anno sta sconquassando il mondo . Lo fa dal Suo Osservatorio della Fondazione Hume e come Docente Universitario di analisi dei dati. Le Sue indagini ci stanno abituando a valutare i fatti secondo il metodo dell’osservazione, della comparazione e della ricerca: una prospettiva scientifica che confuta le opinioni non suffragate da elementi attendibili. Il Suo metodo punta dritto ai dati oggettivi. Perché ha ritenuto di occuparsi di questa vicenda che in realtà dal suo incipit ha palesato più incertezze, confusione, omissioni, ritardi, indecisioni, persino bugie anziché essere gestita in modo trasparente, in particolare dalla scienza e dai decisori politici?

Precisamente per le ragioni che lei richiama nella sua domanda: ero incredulo di fronte alla superficialità (e soprattutto alla pericolosità) delle pseudo-analisi delle autorità politico-sanitarie, ma anche del mondo dell’informazione. La mia fortuna è stata di trovarmi a scrivere sull’unica testata importante (Messaggero-Mattino-Gazzettino) che non ha imposto una linea di deferenza verso le scelte governative.

Descrivendo lo stato di avanzamento della gestione politica della pandemia Lei esordisce partendo dalla cd. “seconda ondata”: credo che questo differimento temporale Le consenta di risalire a poco a poco la china degli eventi con un cammino a ritroso, fino ai primi casi di Coronavirus in Italia, alla dichiarazione dello stato di emergenza, per poi incamminarsi nella sua descrizione degli  errori compiuti. Usando la sua metafora delle ninfee (che spiegano la duplicazione notturna della loro presenza nello stagno) Lei dimostra che l’errore principale è consistito in una sottostima della crescita esponenziale, fino alla perdita di controllo dell’effetto moltiplicatore. In pratica dopo la dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio 2020, c’è stato un mese in cui non si è deciso quasi nulla. Lei elenca: sottovalutazione dell’importanza dei tamponi per circoscrivere e isolare e scarsa considerazione delle mascherine come agente frenante la diffusione del contagio. E’ stata dunque la sottostima e la scelta della rassicurazione tout court che ha portato improvvisamente al primo lockdown?

Onestamente, non credo che – all’inizio – sarebbe stato possibile evitare qualche tipo di lockdown. E glielo dico con rammarico, perché io sono contrarissimo ai lockdown come strumenti di governo di un’epidemia. La mia tesi non è che avremmo dovuto fare come la Svezia (nessun lockdown) ma che, anche a fronte della prima ondata, il numero di contagiati, e quindi il numero di morti, avrebbero potuto essere molti di meno (diciamo circa un decimo) se il nostro governo avesse effettuato scelte diverse.

Quali scelte, Professore?

Essenzialmente quattro. Primo: non sprecare gennaio, e usarlo per preparare gli ospedali, a partire dall’approvvigionamento di DPI (dispositivi di protezione individuale) e dalla messa in atto del piano anti-pandemico (vecchio, ma comunque utile). Secondo: chiusura immediata di Nembro e Alzano, lockdown nazionale (o almeno settentrionale) tempestivo, duro, e di breve durata. Terzo: tamponi di massa, anche agli asintomatici. Quarto: non negare, come invece è stato fatto, l’utilità delle mascherine nei negozi e negli ambienti chiusi.

La sua narrazione dei fatti mi ricorda la figura manzoniana di Don Ferrante che morì di peste non sapendo decidere se si trattasse di accidente o sostanza. La sottovalutazione iniziale è stata dunque fatale? In fondo, da subito, autorevoli scienziati parlavano di “poco più di un raffreddore”. Lei riferisce anche di due elementi che stanno sullo sfondo dell’inazione o di scelte che – dopo l’estate – si riveleranno fatali con l’arrivo della seconda ondata: la subalternità all’OMS e all’UE e gli effetti della globalizzazione, portando l’esempio del turismo, delle frontiere aperte e della libera circolazione  rispetto ad una logica di impatto forte contro il virus e di decisioni drastiche prese per tempo. Ce ne vuole parlare?

Ma io di autorevoli scienziati che dicessero che il Covid è “poco più di un raffreddore” ne ho sentiti pochi. Non dobbiamo fare l’errore di considerare autorevole chiunque indossi un camice bianco, o ricopra una posizione apicale nella burocrazia sanitaria. Quanto all’OMS e l’UE penso che, se ci fosse un processo contro le nostre autorità sanitarie (lo dico a titolo di esperimento mentale: non ci sarà mai…), potrebbero essere chiamati come testimoni a discarico, perché potrebbero confermare di avere sbagliato tutto – e dato indicazioni catastrofiche –  su tamponi, mascherine (OMS), gestione delle frontiere (UE). Ma anche sul piano pandemico, con il ritiro del rapporto OMS sull’Italia, e il tentativo di occultare le responsabilità delle nostre autorità sanitarie. Il mio libro è stato interpretato da alcuni come un attacco frontale al governo italiano, ma in realtà io sono stato abbastanza misericordioso.  Se il mio scopo non fosse stato essenzialmente quello di evitare errori futuri, bensì quello di mettere sotto accusa il governo, non avrei mai scritto due capitoli (il 2 e l’8) che invece analizzano le attenuanti delle autorità italiane. Nel capitolo 2, sulla “Ideologia europea” descrivo il ruolo dei condizionamenti da parte dell’Europa e dell’Oms. Nel capitolo 8, dedicato ai paesi che ce l’hanno fatta a evitare la seconda ondata, mi soffermo sull’importanza della cultura e dei comportamenti della popolazione, due fattori su cui i governi possono ben poco.

In realtà molto resta da chiarire sull’esordio della pandemia, tra mercato di Wuhan, pipistrelli e virus creato in laboratorio. Al netto di un dato certo: l’origine cinese del virus. Non Le sembra che da un paio di anni la geopolitica si sia sottomessa alla geoeconomia e che i due Governi succedutisi sotto la stessa guida abbiano di fatto adottato una scelta filocinese, a scapito anche delle alleanze tradizionali? Il Memorandum della via della seta formato il 23 marzo 2019 è stato un patto di messa a disposizione dei porti di Genova e Trieste per i flussi commerciali cinesi (Poi Trieste si è alleata con Amburgo). Ma il Protocollo d’intesa Italia-Cina del 28 aprile successivo, prevedeva accurati controlli transfrontalieri di merci e persone provenienti dalla Cina, proprio allo scopo di evitare fenomeni pandemici. Non ne parla mai nessuno, lo trovo davvero sconcertante: ma perché l’Italia non ha preteso che fosse rigorosamente applicato mentre sceglieva la via delle frontiere aperte? Le prime responsabilità non originano forse da quel patto non rispettato?

Lei ha ragione, ma mi pare che, non da oggi, sia l’Europa (o forse l’Occidente) nel suo insieme ad aver sottovalutato il rischio Cina, un errore che Giulio Tremonti descrisse molto bene nel suo libro Rischi fatali, del 2008. Oggi ce la prendiamo con lo sprovveduto Di Maio, ma non dobbiamo dimenticare che la percezione della Cina come mera opportunità, anziché come un mix di rischi e di opportunità, risale almeno ai tempi del secondo governo Prodi (2006): globalizzazione e “apertura commerciale a prescindere” sono da lungo tempo nel DNA della cultura progressista.

All’origine della prima e della seconda ondata Lei individua una sequenza di scelte politiche che così riassume: più poteri (emblematici i ripetuti e complessi DPCM), “attesa & rassicurazione” (‘ce la faremo’) , terrorismo , lockdown (veti, divieti, sanzioni, poi il teorema delle zone a colori – una tavolozza spesso irrazionale senza dati attendibili ecc.) riapertura di (quasi) tutto.   A giugno 2020 sembravano avviati all’uscita definitiva dall’incubo ed è stata adottata nell’estate la politica del chiudere un occhio, delle movide consentite, delle spiagge affollate, degli assembramenti, dei bonus alberghieri, dei monopattini. E’ stata definita la via italiana, un “modello che tutto il mondo ci invidiava. “Stiamo decidendo”, stiamo valutando”, “stiamo lavorando”, “ci stiamo organizzando”. Qual è stato l’errore di fondo in questa transizione tra presunta fine della pandemia (in realtà era solo la sua prima ondata) ed esplosione devastante della seconda fase, con crescite da capogiro di tamponi positivi, ricoveri in terapia intensiva e morti giornalieri? Altri Paesi hanno fatto peggio di noi ma alcuni hanno decretato lunghe chiusure con provvidenze economiche dirette a lavoratori e imprese. Perchè anche su questo punto abbiano tirato alle lunghe?

Distinguerei l’inadeguatezza sul versante dell’economia da quella sul versante sanitario. Sull’economia in parte siamo stati inadeguati per forza, non potendo mettere in campo le risorse di paesi come la Germania, ma un po’ abbiamo sbagliato e avremmo potuto fare meglio. E’ incredibile, ad esempio, che i vertici dell’INPS non siano stati cambiati – e il sistema informativo completamente riprogrammato – appena è emerso che era incapace di erogare le somme stanziate. Così come è stato un errore, secondo me, puntare tutto su provvedimenti assistenziali (compresi i ristori), anziché agire risolutamente sui costi fissi delle imprese. Sul versante sanitario è mancato quasi tutto: la disorganizzazione e l’immobilismo da maggio a dicembre sono stati sconcertanti e ingiustificabili. E altrettanto lo sono stati l’ostinato rifiuto di ascoltare gli studiosi indipendenti, l’indifferenza ad ogni analisi ed appello proveniente dagli scienziati e dalla società civile, in particolare la petizione del 2 novembre promossa da Lettera 150 e Fondazione Hume. Ma l’errore degli errori è stato di adottare il protocollo europeo-occidentale di gestione dell’epidemia, basato su un unico comandamento: intervieni (con il lockdown) quando ci sono così tanti contagiati da mettere a repentaglio il servizio sanitario nazionale. Mentre il protocollo che funziona è un altro: cerca di tenere il numero di contagiati vicino a zero, e se il numero si allontana troppo da zero intervieni senza esitazione.

La gestione dell’anno scolastico da chiudere e di quello da riaprire è stata veramente problematica. Si è preferito aprire le discoteche d’estate piuttosto che organizzare una ripresa sicura delle lezioni a settembre. I dirigenti scolastici sono stato bombardati da prescrizioni minuziose: ma i banchi a rotelle, i dispenser di gel, i genitori tenuti fuori dall’uscio del plesso non sono bastati. Come negli ospedali medici e infermieri sono stati docenti dirigenti a tenere i motori accesi.  La DAD ha sopperito in parte alle problematiche legate a spazi, orari e risorse umane e materiali. Mi chiedo tuttavia come mai nessuno dei decisori politici nazionali e locali avesse previsto che il problema della scuola non era il “dentro” ma il “fuori”: non tanto la gestione dei gruppi di alunni quanto il problema dei trasporti da e per la scuola, la promiscuità dei gruppi dei pari, le famiglie con malati di Covid in casa o in ospedale, e i capannelli del tempo libero. Come mai non ci si è pensato per tempo?

Non ci si è pensato perché siamo stati governati da una classe dirigente del tutto inadeguata, che si è scelta un Comitato tecnico-scientifico subalterno al ceto politico. Un problema aggravato dal fatto che le due ministre chiave, ossia Azzolina (scuola) e De Micheli (trasporti) hanno chiaramente mostrato di non aver capito i due punti chiave e cioè: che le aule scolastiche non avevano bisogno di banchi a rotelle ma, semmai, di impianti per il controllo dell’umidità e della circolazione dell’aria; che senza interventi precoci (da maggio) e senza il coinvolgimento del settore privato sarebbe stato impossibile risolvere rapidamente il problema del distanziamento sui mezzi pubblici.

La zonizzazione per aree colorate ha acuito i problemi dei rapporti Stato-Regioni specie in tema di competenze sanitarie, come un agente moltiplicatore di conflitti. Le diaspore tra Governo e Governatori (che non lo sono, ma si autodefiniscono tali) hanno raggiunto livelli di contenzioso elevati. Le chiedo: a cosa sono servite le task force, gli Stati Generali, i comitati di esperti se poi le decisioni sono state assunte più sulla base di calcoli sul ‘consenso’ elettorale presunto che sul merito effettivo dei problemi? Mi sembra che abbiamo vissuto un anno di rinvii e di eccessi di annuncio. Lei cita l’esempio della Germania e della Merkel che ha ragionato e parlato alla nazione sugli indici del fattore “R”(dati di decessi, positività e nuovi casi) : eppure in certi momenti anche i loro numeri erano drammatici. Ma Lei ha chiuso tutto e imposto le mascherine FFp2 sui mezzi trasporto. Come mai da noi ciò non può accadere? La nostra società signorile di massa pretende concessioni, deroghe, blandizie? Perché ai nostri politici manca il coraggio di assumere decisioni certe, coraggiose e impopolari?  

Per amore di verità si deve dire che, alla fine, anche la strategia della Merkel – per quanto più tempestiva – si è rivelata inadeguata. I nostri politici non hanno il coraggio di chiedere ai cittadini rinunce che sarebbero necessarie. Ma la vera ragione non è solo che i politici pensano esclusivamente al consenso. La vera ragione è che per chiedere sacrifici e rinunce ai cittadini devi – tu politico –  aver fatto tutto quello che era in tuo potere per contrastare l’epidemia. Detto in altre parole: devi avere le carte in regola, devi essere stimato e rispettato. E i nostri politici le carte in regola non le hanno, né godono della stima della maggior parte dei cittadini.

Mantenendo la Sua analisi sul confronto dei dati risulta che ci sono stati Paesi non colpiti dalla seconda ondata. Parliamo di Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del sud, Taiwan , Hong Kong, e in Europa, Norvegia, Irlanda, Danimarca e Finlandia. Ciò è stato dovuto più alla consapevolezza sui rischi epidemiologici, alla durezza e determinazione delle decisioni politiche assunte, a scelte sanitarie come il tracciamento di massa mediante tamponi o c’entra anche il comportamento sociale, l’accettare provvedimenti drastici come il confinamento o la chiusura delle frontiere, per uscire prima dal contagio?

Il mix di condizioni che ha permesso a 11 paesi su 29 di schivare la seconda ondata, e a 9 di schivare anche la terza attualmente in corso, è molto eterogeneo. Danimarca, Norvegia, Islanda hanno molto puntato sui tamponi, la Corea del Sud sul tracciamento, il Giappone, l’Australia, la Nuova Zelanda sul controllo delle frontiere. Però è vero che quasi tutti i paesi che ce l’hanno fatta, tranne forse l’Irlanda, hanno livelli eccezionali di senso civico e/o di rispetto delle regole. E poi c’è un fattore difficile da valutare, ma che secondo me è importante: l’abitudine al distanziamento sociale, o se preferite il basso livello di socialità. In presenza di una pandemia, lo stile di interazione mediterraneo, basato su baci, abbracci, basso distanziamento, incapacità di stare da soli – spiace doverlo dire – ha costi sanitari non trascurabili.

Lei elenca minuziosamente 13 misure alternative o complementari alle chiusure a colori, per aree geografiche e regioni, ai lockdown seguiti da aperture di (quasi) tutto, a giorni di clausura seguiti da giorni di assembramenti, movida e shopping.  Un tiramolla che ha agito da effetto moltiplicatore generando incertezze e riducendo  allo stremo le strutture sanitarie. Mai qualcosa di definitivo per una durata ragionevolmente utile. Perché nessuna di queste è stata sperimentata?  Perché si è scelta la via dei DPCM – vere monografie indecifrabili – dove hanno prevalso logiche di gestione del consenso piuttosto che la voce della scienza?

I politici si sono innamorati dell’idea di non decidere, che permette loro di addossare tutte le colpe a un “algoritmo”, neutro e impersonale. E la gente sembra non aver capito che di automatico non v’è nulla, perché i dati vengono interpretati, e le soglie continuamente modificate dal potere politico.

E passiamo ai vaccini. Meno male che sono arrivati ma creano già polemiche. Il Prof. Benini Emerito all’Università di Zurigo , in due interviste del 30 marzo e del 9 dicembre aveva messo in guardia sulla mutazione genetica frequentissima del virus e sul fatto che le case farmaceutiche chiedono agli Stati di rendersi garanti sotto ogni profilo dell’efficacia del vaccino stesso. Si tratta di colui che nel 2014 aveva recensito sul Sole 24 ore il libro Spillover di David Quammen, lo scienziato USA  che aveva previsto la pandemia con 6 anni di anticipo. Nessuno lo ha ascoltato. Ora emerge anche il rallentamento della fornitura delle dosi richieste da ogni Stato. Perché anche su questo ultimo salvagente per la salute e la tranquillità psicologica della gente tutto diventa improvvisamente incerto?

Sui vaccini l’ultima stima della Fondazione David Hume dice che, procedendo di questo passo, l’obiettivo di vaccinare il 70% dei cittadini si raggiungerà nel settembre del 2023, ovvero nella prossima legislatura. Ma ormai dovrebbe essere chiaro che certe domande sulla imprevidenza e inconcludenza del ceto politico non dovremmo nemmeno farcele. Con una burocrazia e un sistema legislativo ipertrofico come il nostro, con un ceto politico ignorante e presuntuoso, perché mai qualcosa dovrebbe funzionare?