Intervista postuma a Mons.Giovanni Barbareschi: “Il primo atto di fede è nell’uomo”.

Mons.Giovanni Barbareschi, deceduto nel 2018 a 96 anni, medaglia d'argento della Resistenza, medaglia d'Oro del premio Isimbardi, prete delle Brigate Fiamme Verdi, che salvò centinaia di polacchi facendo loro passare il confine svizzero, centrata sul contributo dei religiosi (sacerdoti e suore) alla lotta di Liberazione nazionale.

Sul quotidiano cattolico AVVENIRE è comparso un interessante servizio dedicato al contributo che i religiosi diedero alla Resistenza partigiana, collaborando significativamente alla fase della Liberazione dal nazi-fascismo. Questa presenza di sacerdoti e suore accanto ai partigiani testimonia certamente una condivisione di sentimenti, aspirazioni e ideali e quanto fosse cercato e voluto – in mezzo a tante storie di tribolazioni e sacrifici, anche di vite umane  – il conforto dell’assistenza spirituale.  Un diffuso, nascosto, silente e diuturno aiuto ai più deboli e agli oppressi, realizzato con amore e spirito di servizio, nelle chiese, nei conventi, nei monasteri. Si tratta forse di una parte ancora nascosta di storia che va scoperta e rivalutata? 

Alla luce della Sua esperienza personale vuole rievocare quel sostegno dei religiosi alla lotta di Liberazione  e valutare l’importanza e  il significato dell’attuale rivisitazione storica, dove  anche la Chiesa ritrova una sua significativa collocazione?

La Resistenza è stata per me significativa e importante. Avevo 22 anni ed ero stato educato in una famiglia certamente antifascista. Mio padre non è mai stato iscritto al Partito Fascista e per questo ebbe difficoltà nel suo lavoro e nel racimolare quanto era necessario per mantenere la famiglia: eravamo quattro figli. Io ricordo quando – Balilla – tornavo dalle adunate che si svolgevano al Liceo Manzoni dove ero alunno, tornavo alla domenica a casa e dicevo a papà, con orgoglio: “ci hanno anche portato a Messa”, ed ero tutto orgoglioso di quelle Messe dove potevamo tenere il nostro fez in testa e dove alla Consacrazione scattavamo sull’attenti: eravamo tutti molto ‘presi’da quella situazione, infervorati, convinti. Tornavo a casa e ne parlavo con mio papà  ma lui mi rispondeva: “quella Messa non vale niente”.  Meravigliato dicevo “perché, papà?” e lui mi spiegava: “perché non eravate liberi di partecipare a quella Messa, dovevate andarci ‘in massa’: “quando non c’è libertà non c’è fede”. 

Questa era l’educazione che ricevevo nella mia famiglia ed è poi continuata con un altri episodi: cito quello del 18 novembre 1935, nel periodo in cui si doveva consegnare l’anello, la fede nuziale, cioè l’oro alla patria per sostenere la guerra in Abissinia. Ricordo che mio padre – eravamo a tavola –  pubblicamente aveva detto a noi quattro figli: “La mamma non andrà a consegnare quella vera”…

“Quella fede nuziale gliel’ho data io e la mamma la tiene per me”. Questo era un rischio, perché tutti erano controllati, chi andava a consegnare l’oro e chi no. Ma mia madre non andò. Educato in una famiglia così, quando è venuto quel periodo che Padre David Maria Turoldo chiama “i giorni del rischio”, era logico che io mi mettessi dalla parte della Resistenza e mi schierassi al fianco di coloro che si opponevano ad una mentalità, ad un modo di fare, alla Repubblica di Salò, al regime fascista. In tanti abbiamo detto di no e il nostro no era convinto. 

Vorrei però mettere in evidenza che la forza più grande della Resistenza non è stata quella “armata”, bensì quella di tutte le persone che si opponevano con un gesto, con una mentalità, con un rifiuto: la vera Resistenza fu una resistenza morale e ad essa noi preti – io stavo per diventarlo, fui consacrato il 13/8/44 – abbiamo dato una testimonianza autentica.

Era un tempo in cui non ci si poteva fidare di nessuno (“mi avranno visto?….”posso dire?…non posso dire?….”se parlo mi tradisce?…: erano gli interrogativi di allora) ma dei preti ci si poteva fidare. Sacerdoti e suore erano, così, persone di fiducia, anche se non sapevi cosa e come pensavano: ma certamente non ti avrebbero mai tradito. Non avrebbero mai detto di un incontro, di un giornale clandestino, di un nascondimento, perchè avevano una dirittura morale che superava ogni idea, ogni concezione.

La Resistenza per me è cominciata così: allora ero diacono e nei mesi estivi andavo nella casa alpina di Motta, sopra Madesimo, al confine con la Svizzera, per dare un po’ di aiuto al Rettore Don Luigi Re. Ricordo che una sera di settembre 1943 arrivò da noi una famiglia: padre, madre e due figli. L’uomo disse a Don Re: “Per favore ci aiuti ad andare in Svizzera, qui siamo ricercati”.

Andare in Svizzera era per noi una passeggiata normale, i tedeschi rilasciavano un lasciapassare ma non stavano a contare le singole persone: quella volta passammo il confine in 24 e tornammo in 20. Quella famiglia di ebrei trovò rifugio in Svizzera. Quello fu il mio primo gesto, cui ne seguirono molti altri: il mio scopo divenne quello di salvare ebrei e insieme a loro ricercati, renitenti alla Repubblica di Salò, prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento, che erano scappati nel periodo che va dal 25 luglio all’8 settembre, tra la caduta del fascismo e l’armistizio.

Salvare questa gente, portarli di  là: divenne uno scopo, una missione, anche facendo carte false.

I più giovani li portavamo camminando sui valichi, mentre per far passare  gli anziani “compravamo” letteralmente (è questa la parola giusta) le guardie di confine fasciste e svizzere.

Quanti ebrei abbiamo salvato? Non lo so, la cifra non saprei dirla e non mi interessa neppure saperlo. Conservo in casa mia il diploma di riconoscenza del popolo ebreo per quelle azioni di salvataggio: è la cosa più cara e preziosa che ho (‘mi mostra il diploma, appeso alla parete della sala, a lui dedicato dal popolo ebreo’).

Ci racconta qualche aneddoto, qualche vicenda umana come emerge dagli studi che hanno riscoperto e valorizzato quella parte non-armata della Resistenza?

 

Io – come ho già detto- sono stato consacrato prete il 13/8/44 e ho detto la mia prima Messa il 15/8, due giorni dopo, nella Chiesa di Santa Maria al Castello a Milano, di fronte al teatro “Dal Verme”. La sera di quel 15 agosto mentre cercavo di aiutare alcuni ebrei dando loro delle gallette, dei biscotti, del cioccolato perché erano in partenza per un campo di concentramento, uscendo dal carcere di San Vittore, fui arrestato dalle SS. Dopo un primo interrogatorio fui mandato al raggio quinto, cella 102, matricola 1092 e rimasi lì un po’. In quel raggio era imprigionati i cosiddetti politici e tra noi ci eravamo messi d’accordo: “quando torni da un interrogatorio, se non hai parlato, se non hai rivelato nomi e indirizzi, alza la mano destra”. E così sbirciavamo dagli spioncini delle celle che coloro che passavano alzassero la mano, come convenuto, per tranquillizzare gli altri.

Ma un giorno, tornando da un interrogatorio duro e pesante – mi avevano spezzato un braccio – non potei alzare il braccio: cercai allora di sforzarmi a fare un cenno con la mano destra, cercando di alzarla, con un piccolo gesto delle dita. Allora tutti i detenuti del raggio quinto, per farmi capire che avevano capito e che mi ringraziavano, presero a battere forte le forchette contro le gavette di latta.

Il raggio quinto pagò un prezzo serio per  quel comportamento da persone libere: quella sera fummo tenuti tutti a digiuno per quel gesto di solidarietà verso un detenuto.

Gesti ed episodi semplici ma significativi, perché la cosa più bella della Resistenza fu la nostra solidarietà: gli uni con gli altri. Non importava se eri comunista, prete, socialista o liberale: eravamo persone che resistevano e questo ci rendeva uniti.

E’ esattamente ciò che manca all’uomo di oggi: mancano idee forti che ci uniscano, idee fondamentali, essenziali. Che senso ha oggi la parola onore, che senso ha la lealtà, la fedeltà, l’espressione “io sto con te”.

Tutto è comprabile, tutto è vendibile, tutto è cedibile. E si trovano sempre le motivazioni per giustificare quelli che una volta chiamavamo ‘tradimenti’.

Racconto un altro episodio. Eravamo sopra a Darfo, in Valcamonica, io ero cappellano partigiano di un piccolo gruppo di “fiamme verdi” e a un certo punto ci venne segnalato che stava salendo verso di noi un plotone di SS. Avevamo tra noi un ferito che si rivolse a me, cappellano, con la sua pistola in mano e mi disse: “uccidimi, se mi prendono mi fanno parlare e io non voglio tradirvi. Ti prego uccidimi”. 

Lascio immaginare che cosa passò nella mia mente e nel mio cuore di persona, di sacerdote, di cristiano. Allora facemmo una piccola barella e lo trasportammo via con noi, salvandolo.

Ma vorrei riflettere su quell’uomo, che cercava la morte per non tradirci.

Oggi persone così non le trovate più ed è questo che manca, soprattutto come esempio ai giovani, che non ereditano più idee e valori, ereditano modi di fare e si persuadono che la verità dipenda tutta dal ‘gridarla’, dal dirla tutti allo stesso modo. Non è vero: che sia uno o che sia una massa che fa un’affermazione non cambia nulla: quell’affermazione è vera o è falsa in sé.

E invece oggi si chiede l’aiuto psicologico della massa e quando si è in tanti si crede di essere nella verità.

Il primo atto di fede che l’uomo deve compiere – e ve lo dice un prete – non è in Dio: il primo atto di fede che l’uomo deve compiere è nella sua libertà, nella sua capacità di essere e di diventare sempre di più una persona libera.

Perché la fede e la libertà dell’uomo non si dimostrano: si credono, come un mistero. Ma è capace ancora l’uomo di oggi di giocare la vita su un mistero? Penso di no, penso che l’uomo di oggi non cerchi più la verità ma l’evidenza, che non sarà mai la verità ma una ‘piccola’ verità.

E quando parlo di verità come mistero intendo quella di un’amicizia, di un amore, di una fedeltà, di una meta raggiunta. Una verità da conquistare giorno per giorno, come dice il Vangelo: “la verità vi farà liberi”.

Come riuscivano sacerdoti e religiose ad entrare in contatto con la popolazione civile, quale tipo di supporto poteva essere offerto agli oppressi, ai prigionieri politici, agli ebrei, ai rifugiati, agli sfollati, ai soldati allo sbando?

In quei giorni molti preti, parroci di paesi di confine hanno scoperto la Provvidenza di essere lì, parroci a due passi dalla Svizzera. Aiutavano ebrei, rifugiati, sfollati, fuggiaschi, li ospitavano, li facevano passare dall’altra parte, salvandoli e in ciò realizzando – in spirito di carità e di servizio – il loro sacerdozio, anche a rischio della loro stessa vita.

Recentemente il Sen. Raimondo Ricci, Presidente naz.le dell’ANPI, mi ricordava il contributo valoroso di tanti sacerdoti, fino al sacrificio estremo, pur di stare al fianco dei partigiani combattenti. Quella solidarietà fattiva e ricca di umanità e concretezza restituisce dunque alla Liberazione il senso di un patrimonio storico e ideale di tutti, anche significativamente della Chiesa militante?

Certamente la Chiesa ha scritto una pagina meravigliosa della Resistenza, con i suoi preti e con le sue suore. Io stesso ho approfondito recentemente in un convegno il tema delle “suore nella Resistenza”. Quanti conventi si sono aperti, hanno ospitato, hanno salvato! Quanti preti si sono adoperati e hanno pagato: “ribelli per amore”.

Come valuta le rivisitazioni critiche di quel periodo della lotta partigiana. Ci furono davvero dei chiaroscuri o tutto fu nobile e limpido?

Quando ci sono di mezzo degli uomini ci sono possibili ‘macchie’, da una parte e dall’altra,  ma l’enorme positività di ciò che si è fatto annulla qualche possibile errore. Ma certamente l’immagine che traggo dalla Resistenza è assolutamente positiva per la generosità, il rischio di allora: oggi non si rischia più niente, tutto è pesato, quantificato., previsto, programmato. Manca il senso di gratuità e generosità di un gesto, di un’idea, di un’azione.

Quando un uomo non rischia non è uomo: due sono le condizioni che qualificano un uomo, la capacità di ‘rischio’ e la capacità di ‘sogno’. Oggi non si rischia più e non si sogna più. Ti fanno vedere il risultato che ottieni e ti muovi davanti alla certezza di quel risultato. Ma un uomo che non sogna non è un uomo: sognare e rischiare sono ciò che lo rendono tale.

Che cosa resta oggi di quei valori che costarono il sacrificio di vite umane e perché è necessario rinnovare ai contemporanei la memoria di quel periodo affinchè la storia non abbia  a ripetersi? In particolare, quali ideali dobbiamo insegnare ai giovani affinchè ne facciano tesoro  e li conservino con affetto e devozione?

Vorrei parlare ai giovani: “vi parla un prete”. Non meravigliatevi se vi dico che non mi interessa molto diventare un santo, mi interessa diventare un uomo libero. Se le due parole coincidono allora mi va bene ma la parola “santo” la trovo troppo ecclesiasticamente qualificata. Preferisco la parola umana: voglio diventare un uomo libero. Libero davanti alla tradizione, davanti all’educazione che ho avuto, davanti all’abitudine di un agire comune, davanti a una mentalità. Perché il pericolo che torni il fascismo c’è sempre e direi in questi giorni e in questa situazione italiana è particolarmente grave.

Fascismo non è solo una camicia nera o un’adunata, fascismo è una mentalità: il superiore ha sempre ragione, tu non rifletti con la tua testa ma segui lui, ti immedesimi in lui. E’ più facile seguire che creare, anche un progetto di vita. Il fascismo le mete le imponeva lui. Vorrei allora dire ai giovani: cercate sempre di essere persone libere, interrogatevi e non meravigliatevi. Ieri era più facile di oggi: ieri avevamo i mitra contro ma oggi ci stanno strozzando con un guanto di velluto. Sì, lo ammetto, il guanto è di velluto ma strozza la tua capacità di essere un uomo libero.

Penso all’invasione dei telefonini oggi: davanti a quel piccolo strumento sono libero o schiavo?

Il dramma di oggi consiste nell’essere liberi o schiavi. Direi ai giovani: interrogatevi sugli atti d’amore con gli altri. Se non c’è amore ogni atto è condizionato: dall’interesse, dal guadagno, dall’utilità, dall’abitudine. Ecco perché l’esame di coscienza alla sera non va fatto sui peccati: sanno troppo di ecclesiastico. Quell’esame di coscienza deve interrogarti sugli atti di libertà e di amore che hai realizzato.

Rev.mo Don Barbareschi Lei fu molto vicino a Don Carlo Gnocchi, lo conobbe personalmente, condividendo la Sua generosa dedizione alla causa dei piccoli mutilatini e il Suo essere vicino ai bisogni della povera gente. Com’era, visto da vicino? Mi riferisco al sacerdote, al cappellano militare, all’educatore e all’uomo dedito all’assistenza materiale e spirituale dei bambini sofferenti…

Ho conosciuto Don Carlo Gnocchi, nel marzo 1943, alla stazione di Udine, lui tornava dalla Russia. Mi sono presentato e siamo diventati amici. Poi con lui ho vissuto tutta la Resistenza e abbiamo rinsaldato profondamente i nostri sentimenti di amicizia: abbiamo rischiato e sofferto insieme, entrambi siamo stati arrestati dalle SS e rinchiusi nel carcere di San Vittore.

Quando, nel 1955, Don Carlo si accorge di non stare tanto bene, la Sua Opera era già sviluppata, per i mutilatini, per i poliomielitici. Il Card. Montini andò a trovarlo presso la clinica Columbus: prima di entrare in camera a fargli visita (Don Gnocchi mi aveva voluto accanto a sé per fare un po’ da tramite con tutti coloro che andavano a trovarlo) gli dissi: “Eminenza, con le responsabilità che Don Carlo ha ormai nella Sua Opera – la Pro-juventute-  bisogna che sia informato del fatto che sta per morire. Era la fine del 1955. E dissi ancora al Card. Montini: “Eminenza. o glielo dice Lei o appena Lei esce glielo dico io”. Il Cardinale entrò nella stanza di Don Carlo, rimase un quarto d’ora e poi uscì, piangendo. Entrai di corsa nella stanza di Don Carlo egli dissi: “Carlo, sei diventato davvero una persona importante: fai piangere il tuo Vescovo”… E lui mi rispose: “ Non sono importante, sono uno che sta per morire”. Allora capii che il Cardinale aveva parlato chiaro.

Da quella fine del ‘55 vissi accanto a Don Carlo per due mesi, in quella clinica Columbus, fino al 28/2/1956 quando Don Gnocchi morì. Il 3 gennaio del 56, uscendo dalla sua stanza alle otto di sera lo salutai come sempre: “Ciao, Carlo, ci vediamo domani”. Lui mi prese la mano, stringendola e mi disse: “Stasera non andar via, ho paura”. Da allora non l’ho più lasciato., sono stato con lui tutti i giorni e tutte le notti fino alla sua fine. Mi diceva: “Mi devi aiutare a morire bene”. Allora ci eravamo organizzati fissando due occasioni per stare insieme, tra noi, in quella stanza, uno al mattino e uno alla sera: li chiamavamo”i nostri incontri”.

Durante quegli ‘incontri’ nessuno poteva entrare: eravamo noi due, due amici, due preti. Fissavamo il giorno prima gli argomenti per parlare e confrontarci tra noi e ne dico alcuni: la fede, la mamma, il seminario, la guerra. Prima parlava lui e poi parlavo io: poi leggevano autori che avevano scritto su quegli argomenti. La volta che parlammo della fede Don Carlo volle che portassi quel libro di Trilussa – che non era credente – dove c’era una poesia intitolata “La guida”, dove l’autore parlava della sua fede, raccontando di un giovane che si era smarrito nel bosco al quale si era parata innanzi una vecchietta cieca. Lei diceva a lui “Se tu non sai la strada te la insegno io, basta che tu abbia la forza di venirmi appresso, fin laggiù in fondo dove c’è un cipresso, fino là in cima dove c’è una croce” . Don Carlo commentava: “cipresso, la morte”… “croce, il dolore”: sono le due vere difficoltà di fronte a una fede, le altre son tutte quisquilie, qualche volte anche trovate dai teologi, non difficoltà vere”. E poi leggemmo i versi del poeta: ” Quela Vecchietta ceca, che incontrai, la notte che me spersi in mezzo ar bosco, me disse : “Se la strada nu’ la sai,  te ciaccompagno io, ché la conosco.

Se ciai la forza de venimme appresso, de tanto in tanto te darò una voce, fino là in fonno, dove c’è un cipresso, fino là in cima, dove c’è la Croce…”Io risposi : “Sarà… ma trovo strano che me possa guidà chi nun ce vede…” La Ceca, allora, me pijò la mano e sospirò : “Cammina !” Era la Fede.

La notizia della Sua Beatificazione ha commosso e scaldato molti cuori, in particolare tra coloro che gli sono stati vicini e hanno ricevuto il dono della Sua ricca, instancabile umanità. Poi, a poco a poco, come tutte le notizie che ci raccontano di storie buone e di persone sante e generose, anche questa è caduta nell’oblio della cronaca. Perché siamo morbosamente attratti dal male e dal peggio e dimentichiamo facilmente queste vite eccezionali o le ricordiamo solo nelle ricorrenze e negli anniversari?

Dico subito che non so rispondere a questa domanda, anche se cerco una risposta.  Ritengo che la risposta risieda nella superficialità di ogni uomo, oggi: non andiamo al fondo dell’essere, non sondiamo tutte le nostre possibilità, ci accontentiamo di sapere e non cerchiamo di capire.  E’terribile questo: computer, facebook, internet e tutto il resto ci dicono tutto ma non ti fanno capire. Per capire devi mettere dentro te stesso e non accontentarti di conoscere, ricordare o di sapere, di limitarti alle informazioni: la cultura di per sé non salva l’uomo. La cultura è un primo passo: poi devi fare tuo il sapere, devi metterci la tua partecipazione.  Come Don Carlo Gnocchi mi ha insegnato, ricordo quella frase del Vangelo: “Qui facit veritatem venit ad lucem”: la verità si fa con la tua vita, con le tue immagini, con le tue parole, con le tue mani.

Rev.mo Don Barbareschi, nella Sua vita di uomo e di sacerdote Lei ha visto e conosciuto molta sofferenza – a volte generata dalla cattiveria –  ma anche la parte buona e spesso nascosta della natura umana. Si fa un gran parlare – oggi come sempre – di grandi valori e di grandi ideali ma spesso la realtà umana non coincide con queste aspettative. Non pensa che più che di grandi proclami sulla giustizia, la libertà e la pace, abbiamo fortemente e concretamente bisogno di uomini giusti, liberi e temperanti?

Certamente: abbiamo bisogno di uomini che facciano un passo alla volta. Ricordo la frase di Madre Teresa di Calcutta, rivolta ad una donna spaventata per le malattie e le sofferenze: “Non pensate mai a ciò che non potete fare per tutti questi malati ma cercate di pensare ad una persona alla volta. Io credo che la via sia questa: fare concretamente qualcosa, passo dopo passo, persona per persona. 

 

lntervista già pubblicata da PATRIA , rivista nazionale dell’ANPI