L’operazione lanciata nei giorni scorsi da Matteo Renzi non è facilmente inquadrabile, almeno dal punto di vista dei non “addetti ai lavori” della politica. Non si tratterebbe, in questo caso, di una semplice operazione di Palazzo (come tante scissioni nel passato anche recente) ma del tentativo di dare voce e rappresentanza a istanze politiche “moderate”, fin qui strette tra il governo giallo-rosso (a trazione M5S) e il sovranismo leghista. Il modello politico renziano sembra essere Macron: non a caso gli europarlamentari di “Italia viva” sono destinati prima o poi a lasciare il PSE per confluire nel gruppo guidato dal Presidente francese. È un’operazione legittima e forse anche interessante.

Nello stesso tempo, però, non basta guardare al centro dello schieramento politico per avere un bacino elettorale sicuro. Tanti elettori di centrosinistra – è il ragionamento di Aldo Cazzullo sul Corriere – “consideravano Fini nel complesso migliore di Berlusconi: ma non per questo votavano Fini”. Lo stesso Cavaliere (sempre sul “Corriere della Sera”) si affretta a disconoscere presunte “paternità renziane”. Il Premier Giuseppe Conte, benedetto dai sondaggi e dagli indici di gradimento, ha una compagnia di giro dove gli attori aumentano e il copione diventa più complicato. Bisogna sempre aggiungere un po’ di parti in commedia, con la cassa quasi vuota e il pubblico che rumoreggia.                           

Un ex Premier, Romano Prodi, avanza dubbi perfino sul nome: “Italia viva? Bellissimo nome. Un mio amico lo propose per uno yogurt, forse per via dei fermenti vivi. Il problema è che lo yogurt ha una data di scadenza ravvicinata e questo per un partito può essere un problema”. 

Quindi proprio non si capisce, dal punto di vista dell’uomo della strada, a quale bacino elettorale Italia viva intende riferirsi, se non alla vasta area del consenso “non votante”. Quello che, probabilmente, convinse Mario Monti a “salire in politica”, attratto dal miraggio di Scelta Civica accreditata di un (potenziale) 20%. Il partito personale (Renzi, Calenda) è anche un anticipo di proporzionale puro. Ci si presenta divisi alle elezioni, ognuno alla guida del suo partitino, poi si vedrà in Parlamento. Non c’è ancora la riforma, ci sono già le conseguenze. Eppure il sistema elettorale maggioritario sopravvive (anche piuttosto bene) nelle regioni e soprattutto nelle città, dove il doppio turno va a consacrare un sindaco che è riconosciuto da tutti e che (quasi sempre) riesce a concludere felicemente il mandato. La forza delle autonomie locali sta anche in una legge elettorale in cui, la sera stessa delle elezioni, si conosce il nome del vincitore. E si sa che (salvo sorprese) sarà in carica per cinque anni. Cosa di cui, a livello nazionale, se ne è perso il ricordo.