LA ‘CANCEL CULTURE’ DEL PD SI ABBATTE SUL POPOLARISMO D’ISPIRAZIONE CRISTIANA. IL PUNTO DI VISTA DI FIORONI.

 

Emerge la volontà di assegnare al “partito dei riformisti” una fisionomia social-radicale. “In questa cornice – sostiene Fioroni – l’apporto del cattolicesimo democratico si riduce a semplice orpello di un’operazione tutta interna alla sinistra, bramosa di ritrovare se stessa, con l’esito paradossale di una inammissibile “cancel culture” applicata al mondo del popolarismo d’ispirazione cristiana.

 

Giuseppe Fioroni

 

Il dibattito congressuale del Pd è fatto di esorcismi. Per ogni difficoltà se ne trova uno, sempre con l’aspettativa di prendere congedo dal male oscuro che attanaglia il riformismo. Le formule, benché ripetitive, restano vuote. Si cerca di venire a capo dei problemi con l’evocazione continua di una volontà di riscatto o di un desiderio di purificazione, rimettendo mano alle scelte programmatiche. In nome della concretezza, si finisce per abbozzare un disegno astratto, senza figure identificabili. Ogni esorcismo si misura con la rimozione della sconfitta, il rischio di emarginazione, lo smarrimento dell’identità. In questo modo, però, i nodi della crisi si intrecciano in maniera ancora più complicata.

 

Il Pd voleva e doveva essere la scommessa sul futuro di una democrazia che saldamente ancorata ai principi e ai valori della Carta costituzionale, secondo lo spirito di collaborazione che vide all’opera nel secondo dopoguerra le grandi forze democratiche e popolari. Si pensava a un partito che incarnasse il desiderio di costruire il futuro, mettendo da parte le ideologie del Novecento. Dunque, finito rovinosamente il comunismo, emergeva un nuovo imperativo: come salvare, in uno scenario politico così profondamente mutato, l’istanza di libertà e giustizia? Il Manifesto dei Valori indicava nel rispetto della complessità, e perciò del pluralismo ad essa collegato, il modello culturale e politico da seguire: i Democratici, piuttosto che affidarsi alla letteratura del passato, s’impegnavano a leggere i “segni dei tempi”. Grazie a Mauro Ceruti, vicino al pensatore francese Edgard Morin, il compito di armonizzare le proposte passava attraverso un lessico originale, tanto originale da escludere il riferimento a parole come “socialismo” o “sinistra”, visto che il Pd intendeva qualificarsi come un partito riformista di centro-sinistra.  

 

Oggi si vuole tornare indietro, credendo o volendo far credere che sia questo il percorso del rinnovamento. Ecco perciò che il socialismo democratico, negletto in cinquant’anni di storia della sinistra di opposizione, risorge come orizzonte del “Nuovo Pd”, assorbendo motivazioni etiche di tipo radical-progressista e generando una forma di eclettismo valoriale, sostanzialmente a copertura di un inquieto pragmatismo. In questa cornice, l’apporto del cattolicesimo democratico si riduce a semplice orpello di un’operazione tutta interna alla sinistra, bramosa di ritrovare se stessa, con l’esito paradossale di una inammissibile “cancel culture” applicata al mondo del popolarismo d’ispirazione cristiana. Andrebbe detto, insomma, che a distanza di decenni si ritorna a quel “vicolo cieco della sinistra” da cui è scaturita, per contraccolpo, la baldanzosa avanzata del turbo-capitalismo.

 

Il congresso del Pd non può ignorare che l’organismo di partito può soccombere per asfissia, visto che il dibattito si concentra su questioni che soffocano la ricchezza del disegno originariamente previsto. Non c’è la consapevolezza di quanto sia vicino il momento della crisi irreversibile. Non lo capiscono i maggiorenti del partito, lo hanno capito, in larga parte, gli elettori. I voti persi il 25 settembre non sono il prodotto di un disguido o di una incomprensione, ma il contrassegno della indisponibilità di tanti italiani, pur lontani dalla destra, a farsi irretire da una politica a sfondo social-radicale.