La Cina è vicina

L’importante, sembra utile ricordarlo, è non dar adito alla caccia alle streghe

Sono passati più di 50 anni dal film di Marco Bellocchio del 1967 – “ La Cina è vicina”: erano i tempi di Mao, del libretto rosso e della contestazione, di acqua ne è passata sotto i ponti ma quel modo di dire ha conservato nel tempo il significato di un incombente mistero. La Cina ha mantenuto le sembianze di un mondo ancora inesplorato e per certi aspetti inaccessibile e lontano, direi da Marco Polo in qua.

Differenze di tradizioni e culture che un volo aereo o la connessione via internet possono malcelare ma non annullare: la storia e la natura sono più forti dell’uomo e dettano sincronie e dissonanze imprevedibili e imperscrutabili  come in una nebulosa inaccessibile ai più. In epoca di crescenti opinioni e di decrescenti certezze antropologiche ed esistenziali il relativismo di un presentismo autoreferenziale (“tutto e subito”), il dilagare delle solitudini e l’assenza di visioni strategiche rassicuranti ci fanno vivere in una sorta di limbo dell’indeterminato e dell’effimero. Aggrappati ad un filo di speranza, giorno per giorno.

A giugno 2019 i rappresentanti di 130 Paesi aderenti all’Ipbe (la piattaforma intergovernativa  scientifico-politica sulla biodiversità e gli ecosistemi) si sono riuniti presso la sede UNESCO di Parigi per esaminare un Rapporto dell’ONU stilato in 3 anni di intenso lavoro da parte di oltre 150 esperti provenienti da 50 nazioni, volto allo studio e all’approfondimento dei rischi di estinzione di numerose specie viventi del pianeta. La ricerca – analitica e corposa, articolata su 1800 pagine di dati, indagini e monitoraggi – è stata riassunta dai 130 convegnisti in 40 pagine di evidenze scientifiche, priorità e raccomandazioni ai governi affinchè si facciano carico di questo incombente “tsunami” globale che potrà portare in tempi definiti “relativamente brevi” all’estinzione di una serie di specie viventi che popolano i mari e la Terra, fino ad 1/8 di quelle attualmente censite pari ad una cifra mostruosa di circa un milione di specie animali e vegetali.

Mentre secondo il Rapporto  il mondo si avvicina alla soglia della sesta estinzione di massa della sua storia, la prima attribuita ai comportamenti umani.

Ora che siamo alle prese con il “coronavirus” comprendiamo come in fondo questa virosi che sta a cavallo tra l’epidemia e la pandemia è figlia della globalizzazione: dopo l’attacco alle Twìn Towers del 2001e la crisi finanziaria dei mutui subprime e dei derivati del 2008, questo è il terzo macrofenomeno  globale del terzo millennio.

Se ne discute e se ne scrive mentre si vivono gli aspetti scientifici e quelli comportamentali che stanno aggredendo l’umanità e le rassicuranti e quotidiane certezze di cui desideriamo naturalmente circondarci: navigando tra panico e irrazionalità da un lato e inviti ad un più ragionevole approccio di controllo e monitoraggio di questo contagio planetario. Visioni confliggenti che generano ansie e paure: questo è forse il contagio più diffuso, il saccheggio dei supermercati, il barricarsi in casa, il timore di verità nascoste o celate, l’impossibilità di risalire (anche per occultamenti della verità) alle cause del male.

A cominciare dalla sua genesi, ancora avvolta nel mistero tra ricerche del paziente zero, il consumo di carni animali di specie non commestibili del mondo occidentale e la tesi complottista del virus creato in laboratorio come arma di distruzione e di aggressione in un mondo dove la geoeconomia si rivela più forte della gepolitica. Ricordiamo che solo tre mesi fa il nostro Ministero della Difesa si era sbarazzato in fretta e furia di un gigantesco stock di telefoni cellulari acquistati da un colosso cinese, poiché si era adombrato il sospetto e forse la certezza di un possibile spionaggio militare e industriale.

Molto più probabile che l’eziopatogenesi dell’epidemia globale origini da stili di vita ed alimentari capaci di generare virosi mutuate dagli animali e insufflate nel corpo umano.

Vivendo tra focolai di guerre e genocidi sarebbe molto più istintivo aspettarsi una guerra planetaria, coi missili puntati da un Paese all’altro: in fondo la scienza finora ci ha rassicurato e protetto. Il fatto nuovo consiste invece nello spostarsi del pericolo dall’esterno all’ìnterno. Il panico ha preso il sopravvento alimentato da un tambureggiante interesse dei mass media: molto si dice dei pericoli mentre poco si parta della dedizione che medici infermieri e ricercatori dispensano per arginare il contagio e attrezzarsi per la cura di casi, a conferma del fatto che disponiamo di un sistema sanitario che vanta qualità ed eccellenze.

Impropriamente si è paragonata l’incidenza delle morti per influenza, attestate sullo 0,1 % dei casi e lo 0,9/1% previsto per il coronavirus. Già questo dato ha fatto prevalere timore e pessimismo nei comportamenti individuali e sociali.

Ho letto una frase di grande buon senso pronunciata da Piero Angela: “fidiamoci della scienza e viviamo con serenità le nostre abitudini quotidiane”.

Il problema tuttavia non  va sottovalutato sotto almeno tre profili di considerazione: la facilità disarmante del contagio, il periodo asintomatico di latenza della virosi, l’assenza di una terapia specifica.

Il coronavirus esprime tutta la potenzialità negativa della democrazia del male: la sua diffusione esponenziale a macchia d’olio non risparmia target sociali, mentre pare più accentuata in età più avanzate.

Tuttavia – anche chi scrive queste righe deve confessare la propria ignoranza ed esprimere una banale opinione- la scienza, la ricerca clinica e la medicina hanno fornito sufficienti indicazioni ai decisori istituzionali e politici: isolamento, quarantena, lavarsi spesse volte le mani, evitare luoghi affollati, usare quelle cautele che il buon senso insegna ma che purtroppo vengono ignorante, navigando a vista tra la sicumera dei grandi numeri (“non toccherà mai a me) e lo scetticismo che rasenta l’incoscienza.

La politica si è mossa con le armi che la scienza le ha messo a disposizione anche se l’ha fatto tra ripensamenti, incertezze, timori di provvedimenti drastici, demagogia (malattia per la quale non esiste antidoto). Gli stessi immunologi hanno disquisito con sottigliezza tra diversi approcci interpretativi e operativi.

Personalmente sono rimasto favorevolmente colpito dal piglio decisionista e dal presenzialismo 24h/24 dei Governatori delle Regioni finora più esposte al rischio del contagio: certamente occorreva forse muoversi giovando d’anticipo , col coraggio di decisioni drastiche e impopolari.

Inutile chiudere i voli dalla Cina se vengono aggirati dagli scali a Dubai o Francoforte.

Assurdo e inspiegabile poi che l’Europa non abbia avuto e non si dia tuttora un protocollo operativo comune e condiviso: fa specie vedere gli italiani respinti alle frontiere , come in una sorta di nemesi dell’assurdo, dopo aver aperto i porti a tutti gli immigrati rispetto ai quali  gli altri Paesi del vecchio continente ci hanno sempre individuato come frontiera d’Europa.

Una lezione da tenere a mente: stiamo imparando come si comportano altrove gli Stati che predicano cosmopolitismo e accoglienza. Anche di fronte a protocolli clinici dettati dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ci sono tuttora situazioni di respingimento dei nostri connazionali, semplicemente perché nei Paesi di sbarco prevale una logica di isolamento anziché la ricerca di soluzioni di accoglienza e profilassi. Comprensibile: ma non si dica allora a noi “accogliete, accogliete”, ed essere poi trattati come gli appestati del XXI secolo.

Non girano ancora i monatti per le strade a raccogliere cadaveri , come nella peste descritta dal Manzoni: molto più frequenti gli sciacalli che speculano sulle paure della gente e le fake news dei social irresponsabili, come se si trattasse di una sorta di gioco dell’oca o di un talk show.

Queste realtà “limite” disvelano comportamenti umani che vanno dall’eroismo, all’abnegazione totale, alla solidarietà, all’incoscienza ed evidenziano la fragilità della condizione umana.

Il fatto che il coronavirus nasca in Cina e si propaghi nel mondo non è casuale: questo dimostra che l’integrazione tra culture, usanze, tradizioni, stili di vita e alimentari è solo un auspicio se non una irragionevole chimera, alla prova dei fatti.

La globalizzazione ha finora prodotto più danni che benefici e mi viene in mente che cosa potremo aspettarci dall’applicazione del punto 27 del Memorandum sottoscritto nel marzo 2019 tra Italia e Cina (con il grande disappunto degli altri Paesi dell’UE) sui traffici commerciali e sull’individuazione dei bacini portuali di Genova e Trieste come terminali della via della seta. Le merci e i prodotti non viaggiano da soli: viene da chiedersi che cosa sarebbe successo se questo accordo fosse già stato operativo, in questa situazione di espansione del contagio.

Un’ultima osservazione, da profano, la riservo al numero dei contagiati in Italia più alto rispetto agli altri Paesi dell’Europa, terzi al mondo dopo Cina e Corea per numero di contagi.

Per ora sembra un dato negativo ma riflettendo sul monitoraggio di casi, le azioni di isolamento dei focolai e l’altissimo numero dei controlli coi tamponi oro-faringei questo può con buona probabilità voler dire che in Italia il virus non è stato sottovalutato o occultato, per evitare di  diffondere dati statistici allarmanti, come altrove è avvenuto.

In una società globalizzata e interconnessa nessuno può sentirsi al sicuro.

L’importante, sembra utile ricordarlo, è non dar adito alla caccia alle streghe e non rivivere i tempi delle pestilenze dei secoli bui ma affidarci alla scienza e ai suoi operatori.

Significativo infatti che solo pochi giorni dopo la diffusione del contagio al di fuori dei confini della Cina l’equipe dei virologi e degli immunologi dello Spallanzani di Roma abbia isolato per la prima volta in Europa il virus.  Ora che conosciamo il nemico possiamo studiarlo e sconfiggerlo: sperando che il tempo ci sia propizio.