Apparso ieri su Huffington


Walter Veltroni, con la ormai consueta lucidità e precisione, ha tracciato la strada politica del Partito democratico per i prossimi mesi in una lunghissima intervista rilasciata a Repubblica. In sostanza, l’ex segretario nazionale del Pd ha detto che è giunto il momento di prendere atto che c’è un “bipolarismo tra il Pd e la Lega” e che oltre al Pd, nella futura coalizione di centro sinistra, può esistere solo un “partito ambientalista”. Aggiungendo, tra l’altro, che qualsiasi ipotesi di ritornare ad una sorta di “Ds e Margherita” sarebbe una operazione inutile e farlocca perché avrebbe l’effetto, sempre secondo Veltroni, di sommare un consenso addirittura “inferiore all’attuale forza elettorale del Partito democratico”. 

Ora, al di la della legittimità e della coerenza della riflessione di Veltroni, è del tutto ovvio che una impostazione del genere riflette una concezione singolare dell’attuale sviluppo del centrosinistra e, soprattutto, dell’attuale ruolo politico del Partito democratico. Perché delle l’una: o il Pd è ritornato ad essere una forza a “vocazione maggioritaria” – ma con l’attuale 18/20% è poco probabile nonché sconsigliabile – oppure continua a prevalere la tesi, cara alla tradizione della vecchia sinistra italiana dal Pci in poi, secondo la quale la coalizione si deve certamente costruire purché sia definita attorno ad un partito centrale e largamente maggioritario attorniato da alcuni satelliti del tutto irrilevanti e privi di qualsiasi personalità politica e culturale. Che assomiglia un po’ al cosiddetto “lodo Calenda”, quello secondo il quale un potenziale alleato del Pd deve prima di tutto ricevere l’autorizzazione a scendere in campo dal segretario dello stesso Partito democratico. Una tesi francamente bizzarra se si vuol far crescere un campo politico realmente alternativo alla destra e a tutto ciò che oggi rappresenta quel progetto politico e culturale nella vita concreta del nostro paese e nel suo tessuto sociale, culturale ed economico. Ecco perché, forse, è arrivato anche il momento per chiarire definitivamente in che cosa consiste, oggi, ricostruire una “cultura delle alleanze” nel campo del centro sinistra. Sono almeno due, al riguardo, le precondizioni essenziali, senza le quali si cade nell’equivoco e nel singolare ritorno di un passato francamente superato e da consegnare alla storia. 

Innanzitutto va riconosciuto sino in fondo il pluralismo e l’articolazione sociale, culturale e politica che dovrebbe caratterizzare un potenziale campo riformista e democratico. Altroche’ rievocare la vocazione maggioritaria da un lato o promuovere una concezione satellitare del centro sinistra dall’altro. Senza questo riconoscimento e senza questa piena valorizzazione culturale di tutto ciò che non può essere meccanicamente riconducibile al Partito democratico è perfettamente inutile parlare di coalizione o di alleanza plurale. 

In secondo luogo occorre prendere atto che l’esperienza di un Partito democratico che coltiva l’ambizione della cosiddetta vocazione maggioritaria appartiene ad una stagione che oggi francamente è alle nostre spalle. Come quasi tutti sanno, oggi quel partito è sostanzialmente acefalo perché conta al suo interno correnti e gruppi hanno prospettive e progetti politici diversi se non alternativi. Come quasi tutte le cronache politiche quotidiane confermano. E un partito che ha un consenso che si attesta sul 20% e che incassa sconfitte ripetute a livello locale, regionale e nazionale, difficilmente può esaurire una alleanza al suo interno salvo poche aggiunte marginali e periferiche. 

Ecco perché, dopo la seppur interessante e suggestiva intervista di Veltroni, il dibattito non si può non riaprire su come ricostruire il campo democratico e riformista del centro sinistra. Limitarsi ad alcuni slogan ad effetto probabilmente non aiuta a far crescere una alternativa politica alla destra ma solo ad alimentare illusioni e e riproporre tesi che, francamente, non hanno più cittadinanza nel dibattito politico italiano contemporaneo.