Ieri, sul “Corriere della Sera”, Massimo Gramellini ha parlato del moto di solidarietà di un piccolo comune della Sardegna (Tula, provincia di Sassari) il cui obiettivo era quello di sostenere un concittadino in procinto di perdere la casa. Gramellini riconosce di aver sottovalutato il pensiero di Raghuram Rajan per il quale le piccole comunità possono costituire la salvezza della società globalizzata e iper tecnologica. Di seguito riproponiamo l’intervista molto stimolante di Rajan, apparsa il 4 ottobre scorso sul settimanale “Vita”.

La complessità aumenta, la disoccupazione morde e le democrazie del mercato liberale non offrono più risposte al bisogno di eguaglianza e giustizia sociale. «Diventano meritocrazie… ma ereditarie», spiega l’economista Raghuram Rajan. Per porre rimedio a questa situazione, le risposte devono ripartire dai luoghi e, in particolare, da quel terzo spazio che è la comunità: «la comunità tiene l’individuo ancorato a una serie di reti umane reali e gli conferisce un senso di identità: questo permette di rispondere meglio alle crisi».

Stato, mercato, comunità: questi tre pilastri sono oggi affetti da un grave disequilibrio. Dar voce alla comunità come luogo di empowerment è urgente e fondamentale, spiega Rajan, che fu tra i pochi a prevedere la crisi del 2008. «Quando esiste il corretto equilibrio fra i tre pilastri, la società è nelle condizioni migliori per poter garantire il benessere della popolazione», scrive nel suo Il terzo pilastro (Egea, 2019). Rajan, oggi docente di Finanza alla Booth School dell’Università di Chicago, già governatore della Bank of India e vice presidente del consiglio di amministrazione della Banca dei Regolamenti Internazionali, insiste su un paradosso: «siamo circondati dall’abbondanza, non siamo mai stati più ricchi grazie alle tecnologie». Per la prima volta, racconta Rajan, «non sono unicamente i Paesi più sviluppati ad arricchirsi, ma c’è una distribuzione della crescita. Per questo, nell’arco di una generazione abbiamo visto miliardi di persone transitare dalla povertà alla categoria del ceto medio». Eppure qualcosa non funziona.

Che cosa è successo al “sogno liberale”? Il ritorno alla comunità non risuona di “passatismo”?

Il cambiamento tecnologico ha acceso la luce sulle democrazie liberali tipiche mercato occidentale del dopoguerra e sull’ordine globale creato dagli Stati Uniti e abbiamo capito che qualcosa ha smesso di funzionare. Quindi è al futuro, al problema e al contempo alla soluzione che dobbiamo guardare. Andiamo con ordine.

Primo punto. Il cambiamento tecnologico ha permesso l’integrazione di mercati molto diversificati in tutto il mondo. Le imprese che partecipano a questi mercati globalizzati preferiscono una governance omogenea. Storicamente, questo desiderio di omogeneità ha fatto migrare i poteri normativi e di governance dalla comunità al livello regionale e poi a quello nazionale. I poteri tendono a passare attraverso i governi sovranazionali (pensiamo all’Unione Europea) e trattati (il previsto TPP) sulla scena internazionale. La gente comune si sente sempre più lontana da luogo dove vengono prese le decisioni e sente di avere poco controllo.

Secondo punto. Il cambiamento tecnologico – sia direttamente attraverso l’automazione, sia indirettamente attraverso il commercio globale – sta avendo effetti molto diversificati sulle comunità all’interno dei paesi industrializzati. Abbiamo una fiorente New York City da un lato e poi abbiamo il fallimento di città come Granite City, in Illinois. Queste diverse realtà hanno bisogno di risposte politiche altrettanto diverse.

Terzo punto. Le comunità che stanno perdendo posti di lavoro e forza economica stanno anche assistendo a un crollo sociale. Hanno bisogno di adattarsi. Tuttavia, il mercato tecnologicamente avanzato richiede competenze più elevate, che queste cominità non sono in grado di fornire, soprattutto perché le loro istituzioni locali, come le scuole, si deteriorano in termini di qualità. Ciò causa un ulteriore decadimento della comunità: i migliori se ne vanno altrove, per far studiare i propri figli.

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