Domenica prossima si vota in Francia: probabilmente, al secondo turno Macron sarà riconfermato, ma la vera notizia è un’altra… i vecchi partiti della sinistra sono scomparsi. Al loro posto s’è insediato un tribuno sterile, inutile e populista, Jean-Luc Melenchon.

Gianni Marsilli

Chissà, forse il ricordo personale rende meglio l’idea di una dotta ma incolore analisi politica, che oramai dura il tempo di un mattino e poi via al macero, ché i parametri son già cambiati. E allora vai con l’abusato ma efficace “je me souviens” alla maniera di George Perec, se mi è umilmente concesso.

Mi ricordo un enorme capannone alla periferia di Lione nell’aprile dell’88, pieno come una scatola di sardine. C’era un vecchio con i capelli rossicci sul palco che con una bella voce carezzevole cantava “douce France, oh cher pays de mon enfance…”, e i cinque, diecimila stipati nel capannone che l’accompagnavano in coro. Era Charles Trenet, gloria della “chanson populaire”, patrimonio nazionale vivente che aveva prestato la sua preziosa persona alla campagna elettorale per le presidenziali. Accennava anche a qualche passo di danza, muovendosi sulle sue lunghe gambe con agilità insospettabile. 

Mi ricordo che ad un certo punto la folla quasi ammutolì, per poi esplodere in un applauso entusiasta e aprirsi al passaggio del sovrano. Costui era un uomo di statura medio bassa, ma fendeva la folla la testa alta e il petto in fuori come se dominasse tutti dall’alto di un cavallo bianco. Si chiamava François Mitterrand ed era il candidato del partito socialista, nonché presidente della Repubblica uscente. L’ometto impettito salì sul palco e parlò almeno per un’ora unicamente a braccio con voce metallica ma non fredda, come di acciaio ben temprato. Parlò un po’ del suo programma, demolì i suoi avversari con micidiale arguzia e senza l’ombra di un’ingiuria, citò scrittori e poeti della ricca storia nazionale, ebbe qualche motto di spirito appropriato. Ai miei occhi di esordiente, l’ometto era diventato un omone, il massimo interprete dell’arte oratoria che mi fosse capitato di ascoltare. Come andare a teatro.

Mi ricordo del momento cruciale di quella campagna elettorale, il duello televisivo tra Mitterrand e Chirac, che da due anni era il “suo” capo del governo in una inedita forma di coabitazione, visto che aveva vinto le politiche nell’86. Sembrava l’Ok Corral, una sparatoria felpata ma assassina, in cui i contendenti si guardavano “les yeux dans les yeux”. Più che politico, il duello era personale: avrebbe vinto il più freddo e tagliente, e si capì presto chi l’avrebbe spuntata. Accadde quando Chirac, che l’altro chiamava “Monsieur le Premier ministre”, chiese di azzerare i ruoli e di chiamarsi rispettivamente e democraticamente “monsieur Chirac” e “monsieur Mitterrand”, perché quella sera erano “su un piano di parità“. La risposta di Mitterrand, accompagnata da un sorriso sardonico, fu folgorante: “Mais vous avez tout a fait raison, Monsieur le premier ministre”. Qualche giorno dopo Mitterrand fu confermato all’Eliseo. 

Mi ricordo, sette anni dopo, di uno Chirac che ci riprovava, oltretutto con la tacita benedizione di Mitterrand. L’avevo seguito per un paio di giorni nel nord operaio e socialista, l’avevo visto stringere migliaia di mani, avere una parola per tutti, empatico e caloroso, tutto sociale e antilepenista. Non si capiva cosa ci facesse sulla destra dello scacchiere politico. Aveva difronte Lionel Jospin, un socialista puro e duro, di alta caratura intellettuale ma assai legnoso, dall’apparenza perennemente tormentata, se non proprio gastritica. Lo sconfisse con buon margine, 53 contro 47 per cento. 

Degli anni che seguirono (una ventina, mica  pochi) mi ricordo invece poche cose: il divorzio di Sarkozy e una bella nuova “première dame” italiana, le peripezie sessuomani di DSK (Dominique Strauss Kahn), le fughe in scooter di un neo presidente fedifrago…Poche cose e poco politiche. Ma mi sarò certamente certamente distratto. 

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