La cruciale preminenza della politica estera

 

Da molti anni i temi di politica internazionale non aprono più i (pochi) discorsi dei (pochi) convegni politici e la selezione per il Ministero degli Esteri non è più così rigorosa. Questo decadimento è stato il frutto più in generale dello scadimento della politica sul quale si è scritto già molto, anche troppo. Ora, di fronte al drammatico mutamento dello scenario internazionale imposto dalla guerra, l’importanza decisiva di una maggiore unità fra gli stati europei sta apparendo agli occhi di un numero sempre maggiore di cittadini in tutta la sua rilevanza. Ciò potrebbe influire non poco sulle scelte elettorali.

 

Enrico Farinone

 

In tempi ormai non più così vicini, quando i partiti politici erano (anche) un luogo di dibattito e riflessione, non era rado ascoltare il relatore di turno avviare il proprio ragionamento dai temi della politica internazionale. “Uno sguardo sull’universo” – come il battutista presente in sala, non mancava mai, ironizzava puntualmente – ma in realtà una scaletta ragionata che dalle questioni mondiali arrivava a quelle nazionali, che costituivano il centro del discorso, per poi approdare a quelle locali.

Quegli incipit erano un vezzo o erano piuttosto una modalità oratoria con la quale si riconosceva la primazia della politica estera in una realtà che in effetti da essa derivava? Sì, perché l’esito del conflitto mondiale aveva diviso il pianeta in due e ogni nazione stava da una parte, nel nostro caso quella occidentale, e questo generava delle conseguenze (anzi, tutte le conseguenze) sul piano interno.

La rilevanza della politica estera veniva riconosciuta dai gruppi dirigenti dei partiti, che ne affidavano la guida a parlamentari di competenza ed esperienza maturate negli anni e validate sul campo. Conseguentemente, alla Farnesina arrivavano dopo anni di carriera parlamentare e governativa i più preparati o comunque le personalità di maggior spicco: tanto per citare due nomi, Moro e Andreotti. Ora invece…

Da molti anni i temi di politica internazionale non aprono più i (pochi) discorsi dei (pochi) convegni politici e la selezione per il Ministero degli Esteri non è più così rigorosa. Questo decadimento è stato il frutto più in generale dello scadimento della politica – sul quale si è scritto già molto, anche troppo – e più in particolare, probabilmente, perché per un lungo periodo seguito alla supposta “fine della Storia” si è immaginato che il mondo globalizzato economicamente, finanziariamente, tecnologicamente fosse divenuto unipolare e sostanzialmente più facile da gestire, almeno nel suo Nord, nella fascia ricca delle popolazioni che abitano il pianeta. Non era così.

Avremmo dovuto comprenderlo subito, e invece abbiamo impiegato tre decadi. Oggi la violenza di Putin ci trova impreparati e costretti a reagire nell’emergenza. Ancora avvolti nel dormiveglia, non completamente consapevoli dello scenario mutato nel corso della notte.

Avremmo dovuto comprenderlo subito perché gli effetti del nuovo mondo post 1989 si videro ben presto. Da noi in Italia nel giro di un solo lustro crollò l’intera intelaiatura partitica che aveva retto in maniera più che dignitosa (forse è ora di cominciare a riconoscerlo) un Paese che in 40 anni da pressoché distrutto era divenuto uno dei più benestanti al mondo. Scomparvero i partiti di governo, e pure quelli d’opposizione. Anche quanti tentarono di sopravvivere cambiando nome in realtà mutarono profondamente, sino a divenire altro da quello che erano stati. La via alla trasformazione del sistema fu quella giudiziaria ma la reazione della politica dovette tener conto in ogni caso degli umori popolari diffusi e manifestatisi in un referendum dal chiaro sentore antipolitico: lo fece dapprima con la legge sull’elezione diretta dei sindaci e poi con il parziale maggioritario introdotto dalla nuova legge elettorale per le Camere.

La fine della “Prima Repubblica” fu dunque il portato della fine della Guerra Fredda. Forse solo Mino Martinazzoli lo aveva intuito per tempo, quando disse che la caduta del Muro avrebbe equivalso per l’Italia a quello che fu per la Francia della Quarta Repubblica la guerra d’Algeria. Da allora, pur dovendo attraversare una molteplicità infinita di crisi derivanti da eventi internazionali (l’11 settembre e le guerre successive, la crisi finanziaria innestata dai subprime americani, quella economica ad essa seguita, quella mediterranea con le migrazioni del 2015/2016, infine la pandemia mondiale) ci siamo perduti nel gioco ricorrente del populismo enfatizzato da media sempre più propensi alla spettacolarizzazione della politica (il c.d. infotainment dei talk show), poi ulteriormente rafforzato dalla superficialità dei nuovi strumenti comunicativi (i social media), presto inondati da fuorvianti falsità (le fake news) che hanno avvelenato il rapporto fra cittadini e politica e, quindi, in ultima istanza, la stessa democrazia. La decadenza del Parlamento, e con esso di quella che dovrebbe essere la classe dirigente del Paese, quella che fa le leggi e dunque che regola la civile convivenza in uno Stato, ne è stata la logica conseguenza.

Un populismo che indebolendo la capacità di riflessione politica, la morotea intelligenza degli avvenimenti mi verrebbe da dire, ha lasciato ampio spazio all’insorgere sempre più prepotente di un nazionalismo alquanto cialtrone (in quanto sviluppato su un mantra dai contenuti vagamente razzistici determinato dalla migrazione di migliaia di disperati che da sud e da est fuggivano dalla morte per fame o per guerra cercando di raggiungere la felice e ricca Europa) sul quale le nuove Destre politiche – non solo in Italia, bensì ovunque nel vecchio continente – hanno lucrato elettoralmente. Lanciandosi in una perenne campagna elettorale antieuropeista che ha conseguito risultati vincenti in paesi come Polonia, Ungheria, Danimarca e nello stesso Regno Unito (con la Brexit) che è stata con fatica sconfitta dalla reazione, un po’ tardiva ma infine arrivata delle nazioni che avevano fondato l’Unione, oltre che di quelle della penisola iberica.

Ora, di fronte al drammatico mutamento dello scenario internazionale imposto dalla guerra avviata da Putin l’importanza decisiva di una maggiore unità fra gli stati europei sulla politica estera, su quella della difesa comune e su quella energetica sta apparendo agli occhi di un numero sempre maggiore di cittadini in tutta la sua rilevanza. Ciò potrebbe influire non poco sulle scelte elettorali, che dovrebbero volgere verso le forze politiche autenticamente europeiste. Un primo test lo si avrà tra poche settimane, in Francia. Mentre qui da noi sarebbe utile farci, tutti, una domanda: ma cosa sarebbe successo se invece di Draghi a Palazzo Chigi ci fosse stato Salvini?