“Danza campestre” di Guido Reni (1575-1642), dipinto a lungo dato per disperso, attribuito prima alla mano di altri maestri del Seicento e soltanto nel 2017 (grazie all’antiquario Patrick Matthiessen) riconosciuto opera del grande esponente del Barocco emiliano, è tornato nella collezione della Galleria Borghese. Acquistata per circa 800 mila euro, la tela raggiunge un altro importante lavoro di Guido Reni di proprietà della Galleria, di tipologia e soggetto del tutto diversi, opera matura dell’autore: il “Mosè con le tavole della Legge”.

”Avere individuato un dipinto che certamente veniva dalla collezione del Cardinale Scipione Borghese ci dà grandissima soddisfazione – ha detto Francesca Cappelletti, neo direttrice della Galleria – non solo perché già apparteneva alla raccolta, ma anche perché parliamo di Guido Reni, il pittore preferito da Scipione Borghese e da Papa Paolo V”.  

Durante il Seicento il quadro è descritto in maniera inequivocabile, come riporta la citazione nell’inventario dettagliato di Palazzo Borghese redatto nel 1693: “quadro in tela con un Paese con molte figurine con un ballo in Campagna alto p.mi 3 e mezzo Cornice dorata del N.°(sic) di Guido Reni”. In seguito, del dipinto si erano perdute le tracce fino a ritrovarlo menzionato nel catalogo delle vendite del 1892, che lo attribuiva alla scuola fiamminga. Infine, nel 2008 il quadro ricompare in un’asta di Bonham’s a Londra. Riferito inizialmente ad Agostino Carracci poi viene riconosciuto opera di Reni, di cui finalmente si coglie la sapiente pennellata. 

Nell’opera si percepisce il movimento di un Barocco iniziale: feste che creano armonia tra i personaggi raffigurati e lo spazio circostante, dove la natura si fa protagonista. Si avvertono spinte pittoriche rivolte all’attenzione del “creato”, quella terra collocata al pari di una divinità che genera l’evoluzione della vita. Spunti di un genere paesaggistico che si svilupperà negli anni seguenti. Ritornano alla memoria, iconograficamente e simbolicamente, le pitture dei Carracci e le intuizioni visive di Giorgione. L’uomo vive un rapporto intenso con la Natura e Reni ne è testimone, cercando un modo di reinventare le tradizioni classiche, in un’atmosfera di crisi rinascimentale libera da pregiudizi.

Un quadro pittorico, con una visione in “profondità”, aperto, dalla “chiarezza relativa” e con una festosa sintesi di unicità. Tutte queste sono caratteristiche di una pittura barocca che dialoga formalmente con la classicità, come, circa tre secoli dopo, seppe ben tratteggiare Heinrich Wöllflin (1864-1945).

In questa tela l’elemento sociale, tipico di una festa campestre, è costituito dalle diverse classi che interagiscono nella convinta ricerca di una, seppur contingente, felicità collettiva. La gente del popolo è frammista a persone di alto rango, ciascuno di loro rappresentando quello che è nella vita. Del resto Reni, che subì in giovinezza l’influenza di Caravaggio e del grande maestro della luce studiò con attenzione il chiaroscuro, optava per un realismo senza eccessi cromatici e concettuali. I suoi punti luminosi, costituiti da pennellate bianche e vivide trasparenze, preannunciano già l’essenzialità degli artisti seicenteschi dei Paesi Bassi. In tal senso, è d’uopo prefigurare future elaborazioni, tra cui quelle indimenticabili di Johannes Vermeer.

In “Danza campestre” Guido Reni posiziona alcune figure in modo da creare un cerchio all’interno del quale due protagonisti ballano. La modularità ritmica circolare si ritrova in tutta la tela, facendo interagire differenti iconografie. La natura, noncurante dell’allegria popolare, si manifesta con toni velatamente minacciosi: il verde delle foglie s’inscurisce ed il cielo temporalesco incombe. Non è chiaro se il cattivo tempo sia già passato o stia per arrivare. Come ne “La tempesta” di Giorgione il quesito resta sospeso. Sullo sfondo s’intravedono sagome di montagne rischiarate da bagliori lontani. Il tempo sembra essersi fermato. Il fruitore, partecipe di questa “scenografia teatrale”, si appropria del paesaggio ed osserva i particolari dell’intera scena nella quale non può non percepire quasi una nuova armonia strutturale.  Il centro, rappresentato dalla coppia danzante, si trova di lato, simbolo di un “centro” dell’umanità che, con le scoperte astronomiche del tempo (Keplero, sulla scia delle intuizioni copernicane, accerta il movimento ellittico dei pianeti, tra cui la terra, intorno al sole) ha perso la sua collocazione dominante e dato l’avvio ad un nuovo significato di Infinito. Architetture (poche) e vegetazione (molta) racchiudono tocchi di bianco e luci alternate, quasi a ricercare una sorgente luminosa personale in sintonia con il divenire dell’Universo. Tutto questo abbraccia la scena: allegria e speranza con dolcezza reniana.

Anche in questo caso la poesia visiva di Reni esprime una ricerca che mette assieme avanguardie del periodo con filoni classici, in cui il naturalismo non è realismo puro, ma espressione legata ad una realtà interpretata. Il pittore dipinge in punta di pennello con tocchi preziosi, che superano anche la scuola veneta, perfettamente allineati con il suo amore per la bellezza e l’eleganza. Un bagliore di coscienza di stile e mimesi, che poi sarà sviluppata da altri autori come, primo tra tutti, Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino.

Gli artisti del Seicento hanno influenzato e trasformato la concezione del “fare arte”, riproporre la visione del reale, rendere immagini ellittiche e in divenire. La ritmica spaziale barocca è risultata fondamentale per le trasformazioni della fenomenologia delle arti e non soltanto in ambito pittorico. Si pensi, ad esempio, allo scultore toscano Filippo Valle (1696-1768) che osservava con minuzia predecessori della scuola bolognese, con particolare riferimento proprio allo stile espresso nelle immagini di Guido Reni, di cui seguiva rigorosamente i canoni estetici.