L’articolo appare come editoriale del bollettino dell’Associazione Democratici Cristiani

La battaglia per l’introduzione del divorzio aveva alle spalle una lunga storia. Già dopo l’Unità d’Italia, nel 1878, era stato presentato un disegno di legge ad hoc a firma di Salvatore Morelli, patriota e massone, sostenitore indefesso dell’emancipazione femminile. Sul punto, nella prima parte del Novecento, anche i socialisti avviarono iniziative, senza esito concreto. Invece, durante il regime fascista, della “questione divorzio” si perse ogni traccia.  Tempo dopo, il confronto riprese alla Costituente allorché si pose il tema delll’indissolubilità del matrimonio: la proposta non passò per una manciata di voti. Qualcuno sospetta che la Dc abbia rinunciato a fare le barricate allorché veniva comunque salvaguardato, nel testo costituzionale, il ruolo della famiglia nella vita civile e nell’ordinamento istituzionale. Mutato il clima culturale del Paese, nel 1965 iniziò il lungo confronto che doveva valicare i moti del Sessantotto ed entrare di prepotenza nella V legislatura, chiudendosi infine alla Camera dei Deputati con l’approvazione della legge Fortuna-Baslini, l’uno socialista e l’altro liberale, il 2 dicembre 1970.

Taluni sostengono che la legge sul divorzio sia stato il vero colpo di scure inferto alla Dc. Tesi verosimile ma alquanto discutibile, essendo mutevoli le date che ricorrono nelle descrizioni di lontane scaturigini della crisi e poi della scomparsa, sull’onda di Tangentopoli, del partito d’ispirazione cristiana. C’è chi fa risalire addirittura alle dimissioni di Dossetti, nel 1951, l’inizio di una spirale di decadenza, se non di rottura, così da configurare il prosieguo dell’esperienza democristiana per oltre 40 anni come un lento e inesorabile processo di consumazione dei motivi di legittimità ideale e programmatica, ovvero dell’ubi consistam del partito che De Gasperi fondò nel 1942 in continuità solo parziale con il precedente, sfortunato esperimento del Partito popolare di Sturzo.

Al varo della legge il mondo cattolico reagì con unanimi espressioni di condanna. Paolo VI, sfuggito in quei giorni a un attentato durante il suo viaggio nelle Filippine, intervenne con fermezza. Sullo sfondo si contestava l’esistenza di un vulnus allo spirito e alla lettera del Concordato. Il Card. Poma, presidente della CEI, fece eco alle parole del Papa. Seguirono le voci allarmate di numerosi prelati, ogni diocesi e parrocchia replicando e ampliando le note di doglianza. Tra i laici non mancò la dichiarazione di sconcerto e amarezza del Presidente dell’Azione Cattolica, Vittorio Bachelet, né quella di analoga portata di Giorgio La Pira e Maria Eletta Martini. Più scontata, ovviamente, la polemica del coriaceo Luigi Gedda, ancora a capo dei vecchi Comitati civici. Come si ricorderà, in quelle stesse ore fu lanciato un appello a firma di numerosi intellettuali – tra loro anche Augusto Del Noce e Sergio Cotta – per sottoporre a referendum popolare il testo approvato in Parlamento.

Quel referendum poi si fece, nel 1974, e vide la vittoria clamorosa del fronte divorzista. Nella circostanza prese corpo il dissenso dei “cattolici del No”, ostili a un rigurgito di clericalismo – così essi dicevano – che faceva arretrare la condotta dei cattolici a riguardo della laicità dello Stato e più in generale della politica. Solo la finezza intellettuale di Aldo Moro, volta anzitutto al recupero del dissenso cattolico, salvò la Dc dalla tempesta del dopo referendum. Da quel momento la “linea del confronto” prendeva le distanze dal cosiddetto integralismo fanfaniano. Con la segreteria Zaccagnini entrava nel vivo la stagione del rinnovamento che avrebbe assicurato alla Dc la centralità anche dopo le elezioni del 1976 e durante la breve ma intensa stagione dei governi di solidarietà nazionale, fino all’eccidio di Via Fani. Fu il miracolo politico dello statista pugliese, non a caso eliminato brutalmente attraverso l’operazione brigatista.

Sulla storia del divorzio permane l’errore, più volte ripetuto, di un’analisi molto schematica che fa di Amintore Fanfani l’artefice di una indebita politicizzazione della battaglia referendaria. Si dice nella sostanza che senza quella politicizzazione il risultato poteva essere diverso. Dunque i cattolici, non più soggetti all’opera di intermediazione del tradizionale e ingombrante partito di riferimento, avrebbero potuto finanche vincere. Sennonché, a scorno di questa capziosa supposizione di taglio antidemocristiano, sta l’esito del successivo referendum sull’aborto (1981), gestito dal mondo cattolico in chiave più autonoma, ma perso con margini ancora più consistenti. In verità, sulla spinta del Sessantotto la cosiddetta secolarizzazione, passando attraverso lo scontro sul divorzio, avrebbe conosciuto un’accelerazione formidabile, tanto da rendere irrimediabilmente obsoleto il modello tradizionale di una società naturaliter cristiana, compatta sui valori essenziali seppur divisa lungo l’asse dialettico tra democratici e comunisti.

Conviene oggi riprendere seriamente il discorso sulla genesi e lo sviluppo della post-cristianità, intanto per fare chiarezza sugli equivoci del passato e poi, di conseguenza, per dare un senso alla rivisitazione critica dell’esperienza politica dei cattolici. Stride con la realtà dei fatti l’accusa, ingiustamente rivolta alla classe dirigente democristiana, di consapevole o inconsapevole acquiescienza alle gigantesche trasformazioni che infine, passo dopo passo, hanno gettato nella instabilità un mondo ancora intriso formalmente di etica cristiana. Eppure anche la Chiesa, in forza delle novità del Concilio, aveva concorso al cambiamento della mentalità e dei costumi. Pertanto, non tutte le ragioni opposte dai cattolici al divorzio erano iscritte nel perimetro di un’angusta visione conservatrice. Piuttosto si metteva a verbale, scontando il passaggio a minoranza in Parlamento e nel Paese, il rifiuto dell’individualismo quale motore della società radicale. Indubbiamente, lungo mezzo secolo di progressi e di contraddizioni, la Dc fu interprete di un travagliato rapporto con l’avvento della società del benessere, a base fondamentalmente consumistica, mirando sempre a conciliare come suo punto d’onore la difesa di alcuni principi e insieme il rispetto delle libertà.

A rileggere l’intervento di Giulio Andreotti alla Camera, in quella sera del lontano 2 dicembre di cinquant’anni fa, si coglie tutta intera la visione di una forza politica responsabile, democraticamente eretta a cardine del sistema, comunque preoccupata di mantenere la barra dritta in una circostanza, densa di implicazioni simboliche, che la vede isolata dagli stessi alleati di governo. Certo, il senso della sconfitta pesa e si traduce anche nella consapevolezza di un disallineamento rispetto alle dinamiche prevalenti nella società del tempo, con le inquietudini libertarie di una recente e improvvisata borghesia. Ciò nondimeno la Dc, nelle parole del suo capogruppo, non si atteggia a supremo giudice delle istanze democratiche, né si permette di svilire la volontà del Parlamento. “Noi sentiamo – afferma Andreotti a chiusura del suo intervento – che questo è il nostro dovere. Potremo essere criticati per non aver saputo far meglio in questa vicenda, ma nessuno ci potrà mai criticare per non aver difeso o per avere attentato alla limpida funzionalità delle istituzioni parlamentari”.

Qui traspare, in effetti, il senso dello Stato. Qualcuno potrà dire che altro non era, invece, se non la conferma di un deteriore attaccamento alla prassi del potere. Eppure c’è uno stile e una misura in questa condotta sinceramente rispettosa degli imperativi e dei dilemmi della convivenza civile. Comunque si può vincere o si può perdere, ma lo scontro non deve comportare la pretesa di un oltraggio alla verità della democrazia. Essa è fragile e incomposta, non è una verità assoluta; ma nel suo criterio direttivo, funzionale all’esercizio di una responsabilità collettiva, è pur sempre un argine al disordine e alla prevaricazione. La Dc che perde in Parlamento la battaglia sul divorzio è la stessa Dc che ancora in Parlamento, e a maggior ragione, rilancia la riforma del diritto di famiglia. Quindi emerge all’orizzonte la volontà di tenere unito il Paese, poiché si sceglie di porsi su un altro piano rispetto a quanti individuano nel voto sul divorzio l’emblema di una nuova Porta Pia. Al contrario, bisogna abbattere l’ipotesi di nuovi steccati ideologici, pena l’immancabile degrado dei fattori di coagulo e coesione della società nel suo complesso.

Discutere di divorzio, mentre si staglia nel presente l’ombra di una secessione dall’istituto matrimoniale, suona come un paradosso. A chi può interessare questa discussione? In gioco non è la libertà di rescindere quando e come si voglia il legame coniugale, ma la presa di coscienza del perché si ha motivo tuttora di sposarsi. Vista la diffusione delle formule di convivenza, si potrebbe argomentare che la novità sia comunque un’altra. Nonostante tutto si continua infatti a celebrare nozze, non importa se in Chiesa o in municipio. Dopo mezzo secolo il confronto scavalca le antiche divisioni, non perché le annulli o le disconosca, secondo un astratto criterio storicistico, ma perché apre alla verifica di cosa proponga alle persone, ovvero alla loro intelligenza e ai loro sentimenti, una società che archivia anche il divorzio a ferrovecchio del regime familiare. Ora, che la Dc abbia intuito la validità di un discorso sempre aperto, per conservare all’Italia la fiducia nella funzione di amalgama della politica, costituisce un’evidenza interessante. Una funzione, per altro, che riguarda egualmente tanto le maggioranze quanto le minoranze, essendo imprescindibile per entrambe la finalizzazione della propria iniziativa pubblica. E dunque, in conclusione, per la politica odierna che appare dominata dal perenne disaccordo tra guelfi e ghibellini, tale espressione di equilibrio e lungimiranza non rappresenta un esempio da imitare?