La dissoluzione dell’identità mette all’angolo un individuo sempre più fragile. Non è un problema politico?

 

Il mondo sta perdendo la consapevolezza culturale degli archetipi: essi non saranno mai compensati dalle più avanzate conquiste tecnologiche, specie se esse generano un conflitto con “madre natura”: la pandemia che flagella il mondo è conseguenza di una ribellione alla distruzione del pianeta. Affidiamo alla tecnica – in un continuo passaggio dall’interno all’esterno – la fantasia creatrice, il pensiero divergente, l’immaginazione. Se questo pensiero debole comincia a prender corpo in famiglia e nella scuola rischiamo di crescere una generazione di soggetti ibridi e defedati, deboli e soccombenti alla mutevolezza del momento, istrionici e forse fraudolenti verso se stessi.

 

Francesco Provinciali

 

Sosteneva Hume che ogniqualvolta riflettiamo sulla nostra identità personale ci troviamo di fronte a una serie di percezioni che ci appartengono, ma tra le quali non possiamo mai isolare quella distinta che riguarda il nostro io: «Non riesco mai a sorprendere me stesso senza percezione e a cogliervi altro che percezione». Da questa prospettiva di valutazione, l’identità personale diventa una mera suggestione, l’integrità della persona una supposizione, un’entità sommativa e fittizia assoggettata alla mutevolezza anche temporale delle percezioni. Come già in Locke la riflessione di Hume si muove tra empirismo e razionalismo, come derivazione del cogito cartesiano ma in una cornice più ontologica (l’essere) che gnoseologica (il conoscere), anche se in lui segue la direzione della probabilità e dello scetticismo. Credo sia questo il fondamento filosofico da cui prende corpo il tema dell’identità lungamente cercata e della sua progressiva dissoluzione, ereditata dal ‘900, attraverso Kant, Hegel e Nietzsche.

 

Uno, nessuno e centomila’ è la metafora suggestiva usata da Luigi Pirandello per spiegare le contraddizioni tra l’unicità della persona e la molteplicità delle sue sembianze e dei ruoli sociali che ne sono la caleidoscopica rappresentazione: indossando le maschere imposte dalle circostanze la persona diventa personaggio ‘in cerca d’autore’, asservito alle lusinghe o alle contraddizioni dei mutanti contesti relazionali o attore che esplicita un atto di volontà di mutevolezza o nascondimento. Mentre Cassirer è interessato non tanto alla conoscenza in sé quanto alla sua rappresentazione simbolica: «Non possiamo cercare il vero “immediato” là fuori, nelle cose, ma dobbiamo cercarlo in noi stessi»…; ciò che interessa non è la distinzione tra il dentro e il fuori quanto «da quali punti di vista e in base a quale necessità il sapere stesso pervenga a queste distinzioni».

 

Possiamo da ciò argomentare che la sua fenomenologia della conoscenza tratteggia i connotati dell’uomo come “animale simbolico”, depositario di una continuo rimescolamento delle forme rappresentative della realtà. Decisamente illuminante al riguardo è la lettura dello splendido, recentissimo, saggio di Giuseppe Saponaro, “Per Ernst Cassirer”. Il ‘900 accosta alla riflessione speculativa della filosofia come luogo del rimuginamento interiore la forza dirompente dell’evoluzione tecnologica, del quotidiano,  si apre ai nuovi linguaggi nella loro valenza semantica e simbolica, si incardina nel concetto di modernità e si esplicita nelle pluralità e nella molteplicità delle forme espressive.

 

Va osservato che la letteratura e il teatro si sono ampiamente occupati del tema dell’identità, del suo radicamento interiore e della sua connotazione sociale e culturale. Lo sfondo integratore è quel Novecento in cui l’individuo è alla perenne ricerca di una ragione di vita e di una spiegazione al senso delle cose in un contesto esistenziale in cui già prende corpo la rappresentazione plastica della precarietà esistenziale: a partire dai racconti e dalle pièces teatrali di Anton Checov ma più ancora segnatamente in quello che non a torto è stato definito da Martin Esslin  il teatro dell’assurdo, vera icona della vita come perenne attesa, dell’equivoco e dell’inganno, che ha in Samuel Beckett il più autorevole rappresentante (specie con ‘Aspettando Godot’ e ‘Giorni felici’), insieme ad Eugène Ionesco, Harold Pinter e in parte a Thomas Bernhard, che nel “Riformatore del mondo” celebra l’ipertrofia senza freni di un egocentrismo persino miserevole.

 

E mentre attorno all’uomo e per sua mano, tra due guerre mondiali devastanti, cresce vorticosamente l’impresa tecnologica che prende il posto della rivoluzione industriale, si materializzano rappresentazioni di continuo spaesamento dell’individuo in un contesto sociale caratterizzato da assenza di radicamenti esistenziali, da ambivalenze indecifrabili e relativismo etico: ne assume le sembianze Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce e ancor più ‘l’uomo senza qualità’ di Musil, collocato al centro di una gigantesca rappresentazione iconografica da cui esce ridimensionato non per carenza di potenziali capacità ma per assenza di motivazioni e di possibilità di mettere in pratica i principi a cui vorrebbe ispirare la propria condotta, mentre mutano radicalmente i processi di identificazione sociale (a cominciare dal significato di borghesia) pervasi da un senso di decadenza, impossibilità di autorealizzazione, crescente sentimento di impotenza interiore e difficoltà di dominio della realtà. Il tema di fondo che germina dal capolavoro incompiuto è a ben vedere quello del conflitto tra l’”io “ e il “mondo”, l’impossibilità di afferrare e dominare i processi di emancipazione della realtà, compiendo un impossibile tentativo di ricapitolazione dei contesti esistenziali, per mettere ordine nella propria vita.

 

Avvertiamo in questo straordinario romanzo una sorta di transito dall’interno all’esterno: di una coscienza che si fa più attenta, sensibile e perspicace ma al tempo stesso debole e incerta e di un universo materiale e simbolico pervasivo, di cui sfugge il dominio. A ben vedere un’intuizione illuminante che ritroviamo nell’ampia rivisitazione di Zygmunt Bauman – a questo punto persino inflazionata, abusata e distorta da una folta schiera di replicanti e ‘traduttor dei traduttori’ – che descrive una società liquida ed indeterminata che genera sentimenti di spaesamento, angosce e paure in un contesto puntilliforme e privo di approdi, dentro il quale l’uomo senza qualità diventa uomo senza ancoraggi.

 

Siamo nel pieno della crisi esistenziale ed ontologica dell’io pensante e della confusione e sovrapposizione di ruoli nei processi relazionali e partecipativi tipici delle moderne democrazie. Una deriva cui cerca di porre mano una visione utilitaristica della realtà e dell’universo simbolico delle relazioni (definita “dell’attore sociale”) , entro cui l’individuo possa ritrovare un ruolo e una funzione a valenza costruttivista, anche in chiave di autodeterminazione personale. che ha in Goffman e in Ardigò due autorevoli interpreti.

 

Dentro e fuori, realtà e sua rappresentazione, dimensione ontologica che muove verso il consolidamento interiore di una idea del mondo e fenomenologia simbolica come luogo del possibile: sono i temi che anticipano il dualismo che ci è più contemporaneo, quello tra reale e virtuale, tra percepibile e possibile, tra gestibile ma sfuggente e imperscrutabile perché ‘altrove’.

 

Essere e apparire sono la rappresentazione binaria dell’identità cangiante fino a palesarsi come transito verso la sua dissoluzione. Scavando nel profondo la psicanalisi offre contributi decisivi di studio e spiegazione al tema dell’identità di genere, oggi estremamente attuale sul piano culturale e rispetto alle declinazioni normative applicabili al concetto di autodeterminazione identitaria. In un interessante saggio del 2012 Magioncalda e Vassallo considerano il tema dell’identità di genere che definiscono “uno dei fattori psicosessuali che insieme con l’identità sessuale, l’orientamento ed il comportamento sessuale, vanno a costituire, nel contesto generale della personalità, la sessualità dell’individuo. L’identità di genere è la sensazione soggettiva e profondamente radicata che ognuno ha di essere uomo o di essere donna e che generalmente corrisponde al sesso biologico della persona”, soffermandosi peraltro nella considerazione dei cosiddetti “disturbi dell’identità di genere” il cui presupposto scaturisce dalla distinzione biologica dei sessi al punto che – nell’ampia disamina dei casi – viene citata la legge14 aprile 1982, n. 164, vigente in Italia, che reca le “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, successivamente modificata dall’art.10, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396.

 

La dissoluzione dell’identità è una deriva che esprime una vistosa accelerazione agli inizi di questo terzo millennio: essa matura in un contesto caratterizzato dall’obsolescenza delle ideologie, sostituite spesso da non convincenti e mutevoli opinioni fino al negazionismo, passa attraverso la società globalizzata che va perdendo il valore del radicamento nella storia e del genius loci, subisce l’intorbidamento del relativismo etico, l’esplosione delle nuove tecnologie e la spinta verso la digitalizzazione come modello di comunicazione e di scambio di relazioni affidate ad algoritmi e a codici alfanumerici.

 

Il mondo sta perdendo la consapevolezza culturale degli archetipi: essi non saranno mai compensati dalle più avanzate conquiste tecnologiche, specie se esse generano un conflitto con “madre natura”: la pandemia che flagella il mondo è conseguenza di una ribellione alla distruzione del pianeta. Affidiamo alla tecnica – in un continuo passaggio dall’interno all’esterno – la fantasia creatrice, il pensiero divergente, l’immaginazione.

 

Stiamo perdendo la correlazione tra manualità e pensiero (e viceversa) affidandoci alle “macchine”: nelle scuole in Finlandia è stato abolito il corsivo e introdotto il tablet, quei ragazzini crescendo useranno solo la firma digitale, mai quella manuale, persa per sempre (Finnish National Agency for Education EDUFI – Istituto Nazionale per l’Educazione Finlandese, 2016). La connotazione biologica, il DNA che ci caratterizza viene assoggettato alla valutazione discrezionale di una sensazione del momento, destinata ad essere cangiante: “oggi mi sento uomo”, “oggi mi sento donna”, non sono lui, non sono lei, chiamatemi “loro”. Il cosplay (travestimento) è l’epifenomeno di una insicurezza interiore oppure la scelta di annullare la certezza dell’identità in una sorta di nichilismo inafferrabile, privato di una stabile conversione.

 

Se questo pensiero debole comincia a prender corpo in famiglia e nella scuola rischiamo di crescere una generazione di soggetti ibridi e defedati, deboli e soccombenti alla mutevolezza del momento, istrionici e forse fraudolenti verso se stessi. Il timore è che le donne e i minori paghino il prezzo più salato, la discriminazione più pervasiva, sia essa connotata da violenza fisica o mascherata da perbenismo. Intanto nel buco nero del web, un universo simbolico che ha molte vie di accesso e poche certezze di ritorno, vengono carpiti i dati dei profili social, costruite improbabili identità mentre si consumano violenze e inganni in danno dei più deboli ed indifesi, si istiga al male e all’autodistruzione, la vita stessa è un accidente storico privo di valore, uno scherzo del tempo nello spazio. La percezione dell’identità in David Hume, pur se velata da uno scetticismo razionale, perfino dalla diffidenza come metodo di conoscenza, avrebbe meritato un esito più rassicurante.