La doppia identità

La conoscenza è tensione alla reciproca educazione, il giudizio personale stabilisce distacchi e gerarchie in un tempo dominato dal relativismo etico e dalla soggettività.

C’è in ciascuno di noi una parte di coscienza e di volontà, di intelligenza e di sentimento che è protesa in quella onesta e trasparente ricerca della verità che si realizza nella conoscenza delle cose.
Siamo qui, nel mondo e davanti al mondo, immersi ogni giorno in una fitta rete di relazioni con tutto ciò che esiste al di fuori della nostra personalissima identità.
Ci educhiamo, impariamo, cresciamo e maturiamo entrando sistematicamente in contatto per scelta o per necessità con l’universo intorno a noi.
Questa parte è il periscopio della nostra anima che ci rende permeabili e quasi assorbenti verso la realtà.

C’è un altro aspetto della nostra identità che si esprime poi attraverso il consolidamento di opinioni sulle cose, che ci caratterizza per la selezione che operiamo sui contenuti della conoscenza e che consiste in una progressiva metabolizzazione della realtà fino a farla coincidere con un soggettivo discernimento cui possiamo dare il nome di “giudizio”.
L’uso del pensiero critico ci consente di selezionare le acquisizioni della nostra mente e di modulare i nostri comportamenti sulla base delle esperienze che ogni giorno realizziamo nel nostro incessante rapporto con il mondo delle persone e delle cose.
Trovo nei comportamenti oggi ricorrenti una prevalenza del giudizio sulla conoscenza, spesso una sua anticipazione, un condizionamento a priori basato su luoghi comuni consolidati che ci impedisce di aprire la nostra mente alla verità del discernimento e della riflessione.

Questa asimmetria spiega come spesso la nostra anima sia più abitata da pregiudizievoli luoghi comuni che da una serena disponibilità al dialogo rivelatore.
Il naufragio delle relazioni nell’epoca della trasparenza e della comunicazione si spiega forse con la simulazione della verità nell’uso disinvolto del pregiudizio, della diffidenza e della facile condanna.

La conoscenza è tensione alla reciproca educazione, il giudizio personale stabilisce distacchi e gerarchie in un tempo dominato dal relativismo etico e dalla soggettività.
Questo spiega la nostra doppia identità: quella dell’apertura alla conoscenza e al dialogo e quella della chiusura e della facile sentenza.

La verità consiste nella giustizia come sommo bene comune solo se questa, a sua volta, si esprime come nobile sentimento di redenzione: oltre la sanzione e la pena conta anche il riscatto, la consapevolezza dell’emendamento, la tensione morale al superamento dell’errore.
La verità è soprattutto conoscenza, cioè logos, discorso, relazione, rapporto, confronto, dialogo.

Il vero fraintendimento che sottende molta parte dei nostri comportamenti consiste nel ritenerci implicitamente depositari del compito-dovere di applicare i parametri del pre-giudizio all’osservazione e alla percezione della realtà, ai contesti di vita, alle situazioni esistenziali, agli altri.
Non siamo chiamati a giudicare ma a conoscere per riflettere e per capire: la comprensione, anche proprio originando dal suo significato etimologico, implica un’apertura di intelligenza e di sensibilità verso il mondo.

Viceversa, considerare e avvalorare la verità solo a partire dal nostro soggettivo punto di vista, significherebbe precludere all’anima ogni afflato universale, nella storia e nello spazio, sottraendole quella dimensione di condivisione che non annulla le identità ma le valorizza nella continua tensione morale alla ricerca del bene comune.
La strada che conduce alla pienezza della verità consiste nel superamento della particolarità, dei nostri egoismi, delle risposte precostituite: il cammino comincia dalla nostra anima, ci mette in relazione con il mondo e ritorna alla nostra coscienza, portando a compimento un percorso di conoscenza valorizzato dalla consapevolezza di sé in rapporto agli altri.

Solo andando oltre l’hortus conclusus dei nostri personali interessi e tornaconti possiamo incontrare il vero bene, che non coincide quasi mai con la giustizia-fai-da-te, anche a costo di essere impietosi con sé stessi.
La vera prova di coerenza consiste nel cercare la verità dentro di noi affinché possa coesistere in armonia con l’ordine universale delle cose, con ciò realizzando la nostra presenza nel mondo e dandole significato.

Questo è esattamente il contrario di quello che solitamente siamo abituati a fare, quando ci ergiamo a fieri paladini del pregiudizio partendo sempre dalle nostre soggettive valutazioni.
Molto spesso scopriamo infatti che la verità è il contrario di ciò che appare.
Diceva Fedor Dostoevksij: non hai detto che la verità, perciò sei stato ingiusto.